L’ultima volta che McDonald’s è finita al cinema, è accaduto per un attacco – forse il più rumoroso – che ha subìto. Si trattava del documentario “Super size me” (2004), omonimo del menù mastodontico che veniva servito in America, e che è stato l’unico pasto che il regista e interprete Morgan Spurlock ha consumato per un mese di seguito. Spoiler: Spurlock, alla fine dell’esperienza, aveva l’organismo a pezzi, stato certificato dalle analisi e dai pareri dei dottori che l’hanno preso in osservazione. Il film è stato candidato all’Oscar come miglior documentario, e complice anche questa nomination, ha avuto risonanza globale, tantoché, tra gli effetti, McDonald’s è stata costretta a ritirare dal mercato il menù “Super size me”.
Ora, a distanza di dodici anni, è tornata su un cartello pubblicitario cinematografico la famosa “m” gialla. Davanti a questo celeberrimo logo, c’è in posa il beneamato Michael Keaton; il titolo del film è “The founder” e Keaton interpreta proprio Ray Crock, il fondatore della catena, che a discapito dei fratelli McDonald ha costruito l’impero che tutti conosciamo e che oggi, come recita una scritta nei titoli di coda, dà da mangiare all’un percento della popolazione mondiale: in sostanza un miliardo di clienti l’anno.
Questo film, che almeno per il protagonista è destinato ad entrare nel circuito dell’Accademy, sembrerebbe collocarsi all’opposto rispetto al documentario di Spurlock: stavolta McDonald’s, per come il film è stato proposto, dà l’idea di approdare al cinema per una celebrazione, un encomio sul grande schermo diretto da John Lee Hancock. Una mossa che peraltro avrebbe la sua ragione d’essere nella più recente logica di marketing del marchio, che da anni sembra ormai voler ridare lustro e nuova linfa ai propri locali. Ne è un esempio la svolta “green” verso cui le strategie di McDonald’s si sono dirette, cambiando il proprio colore specifico dall’aggressivo e appariscente rosso al – appunto – verde, e restaurando i ristoranti per renderli sempre più simili a delle case accoglienti, ordinate, pulite ed ecologiche. “The founder” sembrava volersi presentare, a questo punto, come una delle tappe fondamentali di questo percorso di rivitalizzazione, ma. Ma c’è un tassello che manca: il film, appunto.
Basterebbe andare al cinema e vedere “The founder”, per capire che il film di Hancock sia tutto fuorché uno sterile e scontato motivo encomiastico utile alla creazione di un parallelo di Steve Jobs nel mondo della ristorazione. In “The founder”, Ray Crock non è un eroe, e non lo diventa neanche al termine del film, quando chiude ogni cerchio e diventa l’unico, vero, fondatore della catena McDonald’s.
Crock è un inetto all’inizio del film, un fallito venditore di frullatori in disaccordo con la moglie Ethel (Laura Dern), perché si evince che il business dei frullatori sia solo l’ultima delle tante fallimentari esperienze imprenditoriali che Ray ha intrapreso nel corso della sua vita. Ha una grande, fatale botta di fortuna, che è mossa esclusivamente dalla curiosità: andare a visitare di persona il ristorante che ha ordinato sei frullatori, cifra assurda per quegli strumenti. È proprio dalla curiosità scaturita da questo fatto, che incontra nel loro ristorante di San Bernardino i fratelli Dick e Mac McDonald (Nick Offerman e John Carroll Lynch), inventori di un rivoluzionario ed efficientissimo “fordismo” applicato in cucina, che permette in trenta secondi al cliente di avere in mano un ottimo hamburger, patatine e bibita da consumare all’istante, dove si vuole. Ray rimane fulminato alla vista di questo metodo. Un metodo incredibile, la cui teorizzazione viene mostrata nel film in una sequenza gustosissima, in cui gli attori mimano in un campo da tennis i movimenti in una virtuale e bidimensionale cucina che è stata disegnata a terra con dei gessetti colorati, per ottimizzare i risultati. Da queste prove durate sei ore, i fratelli raccontano che è nato il loro omonimo ristorante, che all’inizio sembrava essere evitato dai clienti, abituati al drive-in, ma che poi, quando la voce si è sparsa, è diventato un vero e proprio luogo di culto. Merito anche la filosofia e gli ideali nobili dei fratelli, non solo la meccanica del metodo in cucina: mantenere gli standard affinché McDonald fosse un luogo per famiglie, in cui gustare il miglior hamburger della costa in tranquillità e senza aspettare niente, se non i pochi minuti della fila al bancone. E proprio perché, a loro detta, nessuno sarebbe stato in grado di mantenere tali princìpi ferrei al di fuori del loro ristorante di San Bernardino, inizialmente rifiutano l’offerta di Ray ad iniziare un percorso di affiliazione; rifiutano anche perché avevano già fallito, tentando questa strada. «Pensa che in un ristorante vendevano burrito», confida Mac a Ray. Ma grazie alla perseveranza, virtù che il film fa passare come quella fondamentale per il successo di Crock, egli riesce a convincere i fratelli, ed inizia così la sua nuova esperienza, e il resto è storia.
Ma non sarebbe stato storia se non fosse intervenuto un deus ex machina nel film, e personaggio fondamentale nella biografia di Crock, ovvero l’agente finanziario Harry J. Sonneborn (B. J. Novak) che ha avuto l’intuizione per capire che il tesoro di Crock non sarebbero stati gli hamburger (infatti, gli affari dell’affiliazione non stavano andando per niente bene), ma la terra sotto cui gli hamburger venivano serviti. In sostanza, è grazie a Sonneborn che Ray Crock dalla ristorazione ha spostato le proprie risorse nell’immobiliare, ed è stata questa mossa che gli ha permesso di distaccarsi definitivamente dai fratelli McDonald - i quali erano un grande diaframma per le innovazioni - ed avviare l’impero che la McDonald’s corporation è diventata.
Come si può desumere, Crock dunque è partito da inetto e ha terminato fondando “la nuova chiesa americana”, ma non lo ha fatto da eroe. Non è accaduto perché il film ha sempre rimarcato l’importanza della fortuna nella storia e soprattutto ha mantenuto per tutta la sua durata l’immagine di un Crock spietatamente fedifrago, talvolta incompetente, mai del tutto sicuro di sé. Complice anche un Keaton in grande forma, il personaggio di Crock risulta sgradevole nel suo atteggiamento, nell’abbigliamento, in quel suo sorriso finto e protruso, in quelle smorfie poco eleganti con la lingua e quella mossa, orrenda, del dito nella bocca per nettare i denti. Un protagonista sporco sebbene all’apparenza lucido, quasi brillante, brillantezza accentuata nel volto tirato di Keaton, truccatissimo, simile a quello di una marionetta.
Ma oltre a questi micro dettagli, ci sono poi gli eventi macroscopici che alimentano l’immagine negativa di Crock, e che fondamentalmente sono tutti legati a un accanimento ingiustificato: accanimento contro i due fratelli e contro la moglie Ethel, la quale viene mollata in una scena quasi no sense, a dimostrazione di quanto l’animo del protagonista fosse ormai rotto alla cupidigia del mondo degli affari.
Il nocciolo della questione risiede nel fatto che a questo inasprimento morale, non vale il machiavellico fine che giustifica i mezzi, perché, come nel caso del divorzio, e nell’aver costruito a San Bernardino un McDonald’s davanti al ristorante dei fratelli, che nel frattempo aveva dovuto cambiare nome (fatto paradossale visto che i McDonald erano loro), la spietatezza di Ray diventa ingiustificata e ingiustificabile. A differenza di come sono state trattate le “sbavature” delle carriere di altri personaggi contemporanei, come ad esempio il rapporto tra Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) e Eduardo Saverin (Andrew Garfield) in “The social network” (David Fincher, 2010), in “The founder” le azioni infime di Crock vengono enfatizzate e soprattutto lasciate fini a se stesse, senza dare loro così una scappatoia, una fune di fuga che permetta, alfine, di poter giudicare il fondatore della catena di fast food più nota del mondo un personaggio degno di ammirazione. In “The founder” non si ammira mai Ray Crock, nemmeno quando esalta la “perseveranza”, perché suona male anche questa virtù accostata alla sua scalata: una caratteristica che a poco sarebbe servita se non fosse intervenuto in tempo Sonneborn. Non a caso, il discorso sulla perseveranza che Ray ha in mente di pronunciare davanti al presidente degli Stati Uniti, non è nient’altro che il discorso che sentì, prima dell’incontro illuminante coi McDonald, su un vinile motivazionale; insomma, un disco registrato, un discorso preconfezionato, nulla di suo. L’unica sua qualità può essere, a questo punto, davvero la curiosità, che gli ha permesso di percorrere la Route 66 fino a San Bernardino ed avere quel fatale primo incontro con Dick e Mac. Tuttavia, non può essere questo motivo a controbilanciare la portata degli elementi negativi che sono propri del protagonista del film.
Non dunque una celebrazione, “The founder”, bensì una godibilissima pellicola che in maniera molto poco diretta, e per questo assai profonda, attacca McDonald’s, e lo fa alla sua radice prima, alla sua fondazione. E a proposito di origini, nel film di Hancock c’è anche la semenza della degenerazione alimentare che è denunciata in “Super size me”, ovvero quando Joane Smith (Linda Cardellini), affiliata e futura nuova moglie di Ray, gli propone un frullato in polvere, eliminando il gelato e i costi che la cella frigorifera comporta; la semenza dell’ideale che vede il profitto anteposto alla qualità.
Questo film è dunque una sorta di rappresentazione del peccato originale, del fratricidio di Remo, di una delle più grandi aziende del mondo. Tutt’altro che un encomio.
Recensioni
The Founder (2017)
19 Gennaio 2017 11:13
Luca Montesi
5,0 (su 4 voti)
Accedi per votare!L’ultima volta che McDonald’s è finita al cinema, è accaduto per un attacco – forse il più rumoroso – che ha subìto. Si trattava del documentario “Super size me” (2004), omonimo del menù mastodontico che veniva servito in America, e che è stato l’unico pasto che il regista e interprete Morgan Spurlock ha consumato per un mese di seguito. Spoiler: Spurlock, alla fine dell’esperienza, aveva l’organismo a pezzi, stato certificato dalle analisi e dai pareri dei dottori che l’hanno preso in osservazione. Il film è stato candidato all’Oscar come miglior documentario, e complice anche questa nomination, ha avuto risonanza globale, tantoché, tra gli effetti, McDonald’s è stata costretta a ritirare dal mercato il menù “Super size me”.
Ora, a distanza di dodici anni, è tornata su un cartello pubblicitario cinematografico la famosa “m” gialla. Davanti a questo celeberrimo logo, c’è in posa il beneamato Michael Keaton; il titolo del film è “The founder” e Keaton interpreta proprio Ray Crock, il fondatore della catena, che a discapito dei fratelli McDonald ha costruito l’impero che tutti conosciamo e che oggi, come recita una scritta nei titoli di coda, dà da mangiare all’un percento della popolazione mondiale: in sostanza un miliardo di clienti l’anno.
Questo film, che almeno per il protagonista è destinato ad entrare nel circuito dell’Accademy, sembrerebbe collocarsi all’opposto rispetto al documentario di Spurlock: stavolta McDonald’s, per come il film è stato proposto, dà l’idea di approdare al cinema per una celebrazione, un encomio sul grande schermo diretto da John Lee Hancock. Una mossa che peraltro avrebbe la sua ragione d’essere nella più recente logica di marketing del marchio, che da anni sembra ormai voler ridare lustro e nuova linfa ai propri locali. Ne è un esempio la svolta “green” verso cui le strategie di McDonald’s si sono dirette, cambiando il proprio colore specifico dall’aggressivo e appariscente rosso al – appunto – verde, e restaurando i ristoranti per renderli sempre più simili a delle case accoglienti, ordinate, pulite ed ecologiche. “The founder” sembrava volersi presentare, a questo punto, come una delle tappe fondamentali di questo percorso di rivitalizzazione, ma. Ma c’è un tassello che manca: il film, appunto.
Basterebbe andare al cinema e vedere “The founder”, per capire che il film di Hancock sia tutto fuorché uno sterile e scontato motivo encomiastico utile alla creazione di un parallelo di Steve Jobs nel mondo della ristorazione. In “The founder”, Ray Crock non è un eroe, e non lo diventa neanche al termine del film, quando chiude ogni cerchio e diventa l’unico, vero, fondatore della catena McDonald’s.
Crock è un inetto all’inizio del film, un fallito venditore di frullatori in disaccordo con la moglie Ethel (Laura Dern), perché si evince che il business dei frullatori sia solo l’ultima delle tante fallimentari esperienze imprenditoriali che Ray ha intrapreso nel corso della sua vita. Ha una grande, fatale botta di fortuna, che è mossa esclusivamente dalla curiosità: andare a visitare di persona il ristorante che ha ordinato sei frullatori, cifra assurda per quegli strumenti. È proprio dalla curiosità scaturita da questo fatto, che incontra nel loro ristorante di San Bernardino i fratelli Dick e Mac McDonald (Nick Offerman e John Carroll Lynch), inventori di un rivoluzionario ed efficientissimo “fordismo” applicato in cucina, che permette in trenta secondi al cliente di avere in mano un ottimo hamburger, patatine e bibita da consumare all’istante, dove si vuole. Ray rimane fulminato alla vista di questo metodo. Un metodo incredibile, la cui teorizzazione viene mostrata nel film in una sequenza gustosissima, in cui gli attori mimano in un campo da tennis i movimenti in una virtuale e bidimensionale cucina che è stata disegnata a terra con dei gessetti colorati, per ottimizzare i risultati. Da queste prove durate sei ore, i fratelli raccontano che è nato il loro omonimo ristorante, che all’inizio sembrava essere evitato dai clienti, abituati al drive-in, ma che poi, quando la voce si è sparsa, è diventato un vero e proprio luogo di culto. Merito anche la filosofia e gli ideali nobili dei fratelli, non solo la meccanica del metodo in cucina: mantenere gli standard affinché McDonald fosse un luogo per famiglie, in cui gustare il miglior hamburger della costa in tranquillità e senza aspettare niente, se non i pochi minuti della fila al bancone. E proprio perché, a loro detta, nessuno sarebbe stato in grado di mantenere tali princìpi ferrei al di fuori del loro ristorante di San Bernardino, inizialmente rifiutano l’offerta di Ray ad iniziare un percorso di affiliazione; rifiutano anche perché avevano già fallito, tentando questa strada. «Pensa che in un ristorante vendevano burrito», confida Mac a Ray. Ma grazie alla perseveranza, virtù che il film fa passare come quella fondamentale per il successo di Crock, egli riesce a convincere i fratelli, ed inizia così la sua nuova esperienza, e il resto è storia.
Ma non sarebbe stato storia se non fosse intervenuto un deus ex machina nel film, e personaggio fondamentale nella biografia di Crock, ovvero l’agente finanziario Harry J. Sonneborn (B. J. Novak) che ha avuto l’intuizione per capire che il tesoro di Crock non sarebbero stati gli hamburger (infatti, gli affari dell’affiliazione non stavano andando per niente bene), ma la terra sotto cui gli hamburger venivano serviti. In sostanza, è grazie a Sonneborn che Ray Crock dalla ristorazione ha spostato le proprie risorse nell’immobiliare, ed è stata questa mossa che gli ha permesso di distaccarsi definitivamente dai fratelli McDonald - i quali erano un grande diaframma per le innovazioni - ed avviare l’impero che la McDonald’s corporation è diventata.
Come si può desumere, Crock dunque è partito da inetto e ha terminato fondando “la nuova chiesa americana”, ma non lo ha fatto da eroe. Non è accaduto perché il film ha sempre rimarcato l’importanza della fortuna nella storia e soprattutto ha mantenuto per tutta la sua durata l’immagine di un Crock spietatamente fedifrago, talvolta incompetente, mai del tutto sicuro di sé. Complice anche un Keaton in grande forma, il personaggio di Crock risulta sgradevole nel suo atteggiamento, nell’abbigliamento, in quel suo sorriso finto e protruso, in quelle smorfie poco eleganti con la lingua e quella mossa, orrenda, del dito nella bocca per nettare i denti. Un protagonista sporco sebbene all’apparenza lucido, quasi brillante, brillantezza accentuata nel volto tirato di Keaton, truccatissimo, simile a quello di una marionetta.
Ma oltre a questi micro dettagli, ci sono poi gli eventi macroscopici che alimentano l’immagine negativa di Crock, e che fondamentalmente sono tutti legati a un accanimento ingiustificato: accanimento contro i due fratelli e contro la moglie Ethel, la quale viene mollata in una scena quasi no sense, a dimostrazione di quanto l’animo del protagonista fosse ormai rotto alla cupidigia del mondo degli affari.
Il nocciolo della questione risiede nel fatto che a questo inasprimento morale, non vale il machiavellico fine che giustifica i mezzi, perché, come nel caso del divorzio, e nell’aver costruito a San Bernardino un McDonald’s davanti al ristorante dei fratelli, che nel frattempo aveva dovuto cambiare nome (fatto paradossale visto che i McDonald erano loro), la spietatezza di Ray diventa ingiustificata e ingiustificabile. A differenza di come sono state trattate le “sbavature” delle carriere di altri personaggi contemporanei, come ad esempio il rapporto tra Mark Zuckerberg (Jesse Eisenberg) e Eduardo Saverin (Andrew Garfield) in “The social network” (David Fincher, 2010), in “The founder” le azioni infime di Crock vengono enfatizzate e soprattutto lasciate fini a se stesse, senza dare loro così una scappatoia, una fune di fuga che permetta, alfine, di poter giudicare il fondatore della catena di fast food più nota del mondo un personaggio degno di ammirazione. In “The founder” non si ammira mai Ray Crock, nemmeno quando esalta la “perseveranza”, perché suona male anche questa virtù accostata alla sua scalata: una caratteristica che a poco sarebbe servita se non fosse intervenuto in tempo Sonneborn. Non a caso, il discorso sulla perseveranza che Ray ha in mente di pronunciare davanti al presidente degli Stati Uniti, non è nient’altro che il discorso che sentì, prima dell’incontro illuminante coi McDonald, su un vinile motivazionale; insomma, un disco registrato, un discorso preconfezionato, nulla di suo. L’unica sua qualità può essere, a questo punto, davvero la curiosità, che gli ha permesso di percorrere la Route 66 fino a San Bernardino ed avere quel fatale primo incontro con Dick e Mac. Tuttavia, non può essere questo motivo a controbilanciare la portata degli elementi negativi che sono propri del protagonista del film.
Non dunque una celebrazione, “The founder”, bensì una godibilissima pellicola che in maniera molto poco diretta, e per questo assai profonda, attacca McDonald’s, e lo fa alla sua radice prima, alla sua fondazione. E a proposito di origini, nel film di Hancock c’è anche la semenza della degenerazione alimentare che è denunciata in “Super size me”, ovvero quando Joane Smith (Linda Cardellini), affiliata e futura nuova moglie di Ray, gli propone un frullato in polvere, eliminando il gelato e i costi che la cella frigorifera comporta; la semenza dell’ideale che vede il profitto anteposto alla qualità.
Questo film è dunque una sorta di rappresentazione del peccato originale, del fratricidio di Remo, di una delle più grandi aziende del mondo. Tutt’altro che un encomio.