“Arrival”, ultimo film di Denis Villeneuve (che nel corso di quest’anno tornerà in sala con “Blade Runner 2049”), rientra nel genere della fantascienza, soltanto che, come fece per “Sicario” due anni fa, il regista canadese riesce a rimescolare e costruire sopra un materiale che sa di stantio qualcosa di nuovo. Nel 2015 abbiamo potuto constatare come sia possibile girare un film sul narcotraffico esplorando spazi che ancora non sono stati sondati; ed ora, con “Arrival”, Villeneuve ci dice che anche qua, in una trama che prevede i soliti alieni atterrati con la solita misteriosità sul nostro pianeta, possa esserci ancora una porzione di terreno non sondato.
Nella fattispecie, il film candidato a otto Oscar pone al centro dell’opera l’inusuale problema della comunicazione; infatti, fin da subito, l’invasione aliena in “Arrival” risulta essere pacifica, statica. Gli alieni sono giunti sulla Terra con delle misteriose – per intendere – “astronavi” che in realtà somigliano a mastodontici e giurassici blocchi di pietra fluttuanti, chiamati in gergo “gusci”, parcheggiati a pochi metri dal suolo in dodici diverse zone del pianeta, apparentemente senza un criterio, e appaiono in tutta la loro enormità nel contrasto con un cielo quasi sempre terso e il verde dei prati vergini circostanti, contrasto mozzafiato restituito dalla intensa ed efficace fotografia del film. Tali oggetti non identificati, si aprono ad intervalli e permettono agli esploratori di accedervi dentro, in un lungo corridoio governato da leggi di gravità ribaltate, al cui termine si giunge ad una camera: questa camera ha uno schermo (simile a un cinema), che funge da barriera tra un al di qua in cui ci sono gli umani, e un al di là, in cui compaiono gli alieni, in un’atmosfera bianchissima, ricca di vapori e fumi. Queste creature vengono rinominate eptapodi, dati i sette tentacoli/zampe, terminali del loro corpo omogeneo e allungato. Le nazioni in cui queste entità si sono materializzate mobilitano i rispettivi eserciti e le migliori troupe di tecnici per monitorare, studiare e soprattutto decifrare il motivo per cui ci sia stata questa venuta. Tutto il mondo entra nel panico, e questi dodici stati allacciano stretti rapporti per cercare, insieme, di carpire qualche notizia. In America, vengono chiamati in causa due autorevoli studiosi, Louise Banks (Amy Adams) e Ian Donnely (Jeremy Renner), rispettivamente una linguista e un fisico teorico. Tra loro nasce subito una sorta di collaborazione/competizione, oltreché individuale, anche macroscopica, che vede contrapposti l’ambito propriamente scientifico e quello umanistico; ma sebbene la radice di quest’ultima parola rimandi esclusivamente alla specie umana, è proprio grazie alla dottoressa Banks che si fanno i decisivi passi in avanti per comunicare con gli alieni. Lei riesce, grazie alla scrittura ed anche – soprattutto – ad un rapporto più diretto (in barba alle ferree misure di profilassi, toglie la tuta antiradioattiva), a decodificare e tradurre i segni che gli eptapodi tracciano con una specie di inchiostro che spruzzano dai tentacoli.
È proprio in questa direzione che “Arrival” si dimostra differente rispetto alla consuetudine del genere; l’incontro tra l’uomo e l’entità aliena non è uno scontro, è un tentativo di comunicazione, un venirsi incontro. Un dare e un avere. Infatti, gli alieni sono venuti sulla Terra affinché infondessero pace tra la popolazione umana, di modo che gli umani, circa tremila anni dopo, sarebbero venuti in loro soccorso. Dunque gli eptapodi predicono il futuro? Già, proprio così. Gli eptapodi conoscono il futuro, è una loro facoltà. Un’”arma” che riescono a trasmettere alla protagonista. E come trasmettono alla dottoressa Banks la capacità di guardare il futuro? E addirittura giocarci, con la manipolazione del tempo? Lo fanno tramite il linguaggio. In effetti, alla base del film, c’è evidentemente l’adozione di una nota teoria linguistica, che viene anche citata in una battuta, ossia l’ipotesi di Sapir-Whorf, che – riassunta all’estremo – suona più o meno così: un determinato linguaggio influenza gli schemi mentali di chi ne fa uso. E così, Louise, l’unica in grado di comprendere a fondo il linguaggio degli eptapodi, è anche l’unica che in virtù di questo fatto assume quella facoltà che di fatto è propria di chi utilizza tale linguaggio.
Dunque, in un mondo in cui vige la psicosi tra i cittadini e soprattutto tra i leader mondiali – quando gli alieni comunicano la parola “arma”, si interrompono i collegamenti internazionali e Cina e Russia (sic!) mobilitano in posizione di attacco gli eserciti – a risolvere la questione non è un’apocalittica guerra, bensì un’arma pacifica (quella di guardare il futuro) trasmessa dal dialogo tra due nature nemmeno opposte, ma proprio – in apparenza - incomparabili.
Unico neo di “Arrival” è, a nostro parere, che a questo tema poi si aggiunge quello – ormai stancamente immancabile – del dramma personale, sentimentale, esistenziale, filosofico della dottoressa Banks, e risulta forse un surplus nell’economia del film, perché veramente sembrava che Villeneuve avesse messo tantissima carne al fuoco già con questa singola trama. Trama in grado di esporre e supportare il trionfo della comunicazione, dell’intelligenza, e dell’adozione di un’illuminante criterio di “aurea mediocritas” da applicare anche laddove sembrerebbe impossibile farlo, ovvero nell’incontro con il massimamente diverso. Un messaggio che, tuttavia, non dovrebbe essere assolutamente sottovalutato in questa nostra epoca.
Recensioni
Arrival (2016)
30 Gennaio 2017 17:56
Luca Montesi
0,0 (su 0 voti)
Accedi per votare!“Arrival”, ultimo film di Denis Villeneuve (che nel corso di quest’anno tornerà in sala con “Blade Runner 2049”), rientra nel genere della fantascienza, soltanto che, come fece per “Sicario” due anni fa, il regista canadese riesce a rimescolare e costruire sopra un materiale che sa di stantio qualcosa di nuovo. Nel 2015 abbiamo potuto constatare come sia possibile girare un film sul narcotraffico esplorando spazi che ancora non sono stati sondati; ed ora, con “Arrival”, Villeneuve ci dice che anche qua, in una trama che prevede i soliti alieni atterrati con la solita misteriosità sul nostro pianeta, possa esserci ancora una porzione di terreno non sondato.
Nella fattispecie, il film candidato a otto Oscar pone al centro dell’opera l’inusuale problema della comunicazione; infatti, fin da subito, l’invasione aliena in “Arrival” risulta essere pacifica, statica. Gli alieni sono giunti sulla Terra con delle misteriose – per intendere – “astronavi” che in realtà somigliano a mastodontici e giurassici blocchi di pietra fluttuanti, chiamati in gergo “gusci”, parcheggiati a pochi metri dal suolo in dodici diverse zone del pianeta, apparentemente senza un criterio, e appaiono in tutta la loro enormità nel contrasto con un cielo quasi sempre terso e il verde dei prati vergini circostanti, contrasto mozzafiato restituito dalla intensa ed efficace fotografia del film. Tali oggetti non identificati, si aprono ad intervalli e permettono agli esploratori di accedervi dentro, in un lungo corridoio governato da leggi di gravità ribaltate, al cui termine si giunge ad una camera: questa camera ha uno schermo (simile a un cinema), che funge da barriera tra un al di qua in cui ci sono gli umani, e un al di là, in cui compaiono gli alieni, in un’atmosfera bianchissima, ricca di vapori e fumi. Queste creature vengono rinominate eptapodi, dati i sette tentacoli/zampe, terminali del loro corpo omogeneo e allungato. Le nazioni in cui queste entità si sono materializzate mobilitano i rispettivi eserciti e le migliori troupe di tecnici per monitorare, studiare e soprattutto decifrare il motivo per cui ci sia stata questa venuta. Tutto il mondo entra nel panico, e questi dodici stati allacciano stretti rapporti per cercare, insieme, di carpire qualche notizia. In America, vengono chiamati in causa due autorevoli studiosi, Louise Banks (Amy Adams) e Ian Donnely (Jeremy Renner), rispettivamente una linguista e un fisico teorico. Tra loro nasce subito una sorta di collaborazione/competizione, oltreché individuale, anche macroscopica, che vede contrapposti l’ambito propriamente scientifico e quello umanistico; ma sebbene la radice di quest’ultima parola rimandi esclusivamente alla specie umana, è proprio grazie alla dottoressa Banks che si fanno i decisivi passi in avanti per comunicare con gli alieni. Lei riesce, grazie alla scrittura ed anche – soprattutto – ad un rapporto più diretto (in barba alle ferree misure di profilassi, toglie la tuta antiradioattiva), a decodificare e tradurre i segni che gli eptapodi tracciano con una specie di inchiostro che spruzzano dai tentacoli.
È proprio in questa direzione che “Arrival” si dimostra differente rispetto alla consuetudine del genere; l’incontro tra l’uomo e l’entità aliena non è uno scontro, è un tentativo di comunicazione, un venirsi incontro. Un dare e un avere. Infatti, gli alieni sono venuti sulla Terra affinché infondessero pace tra la popolazione umana, di modo che gli umani, circa tremila anni dopo, sarebbero venuti in loro soccorso. Dunque gli eptapodi predicono il futuro? Già, proprio così. Gli eptapodi conoscono il futuro, è una loro facoltà. Un’”arma” che riescono a trasmettere alla protagonista. E come trasmettono alla dottoressa Banks la capacità di guardare il futuro? E addirittura giocarci, con la manipolazione del tempo? Lo fanno tramite il linguaggio. In effetti, alla base del film, c’è evidentemente l’adozione di una nota teoria linguistica, che viene anche citata in una battuta, ossia l’ipotesi di Sapir-Whorf, che – riassunta all’estremo – suona più o meno così: un determinato linguaggio influenza gli schemi mentali di chi ne fa uso. E così, Louise, l’unica in grado di comprendere a fondo il linguaggio degli eptapodi, è anche l’unica che in virtù di questo fatto assume quella facoltà che di fatto è propria di chi utilizza tale linguaggio.
Dunque, in un mondo in cui vige la psicosi tra i cittadini e soprattutto tra i leader mondiali – quando gli alieni comunicano la parola “arma”, si interrompono i collegamenti internazionali e Cina e Russia (sic!) mobilitano in posizione di attacco gli eserciti – a risolvere la questione non è un’apocalittica guerra, bensì un’arma pacifica (quella di guardare il futuro) trasmessa dal dialogo tra due nature nemmeno opposte, ma proprio – in apparenza - incomparabili.
Unico neo di “Arrival” è, a nostro parere, che a questo tema poi si aggiunge quello – ormai stancamente immancabile – del dramma personale, sentimentale, esistenziale, filosofico della dottoressa Banks, e risulta forse un surplus nell’economia del film, perché veramente sembrava che Villeneuve avesse messo tantissima carne al fuoco già con questa singola trama. Trama in grado di esporre e supportare il trionfo della comunicazione, dell’intelligenza, e dell’adozione di un’illuminante criterio di “aurea mediocritas” da applicare anche laddove sembrerebbe impossibile farlo, ovvero nell’incontro con il massimamente diverso. Un messaggio che, tuttavia, non dovrebbe essere assolutamente sottovalutato in questa nostra epoca.