Whitney, we will always love you
Una cosa è certa: Whitney Houston rimarrà sempre nei nostri cuori. Per questo motivo, non perdete il film evento della BBC, diretto da Nick Broomfield, già autore del documentario su Kurt Cobain, che sarà al cinema dal 24 al 28 Aprile 2017.
La cantante dei lenti delle medie – All at once e Greatest love of all tanto per citarne un paio -, quella che ci ha fatti ballare al ritmo di I wanna dance with somebody, che ci ha fatti sognare al fianco di Kevin Costner in Guardia del corpo, ha segnato un'epoca.
Il sorriso che le illuminava il volto e quella voce inconfondibile e unica al mondo non li dimenticheremo mai.
Sebbene ancora adesso sembra che la diva non meriti di dormire sonni tranquilli: nonostante le buone intenzioni del regista e nonostante la sicura commozione che coglierà i fan della cantante, la famiglia Houston sembra infatti non aver dato la benedizione al lavoro di Broomfield nel quale ci sarebbero immagini non autorizzate.
Il clima al momento è incandescente ma l'intenzione, assicura lo stesso regista, non è mai stata quella di sconvolgere i familiari dell'attrice e cantante che, addirittura, sembra si siano mossi per impedire l'uscita del documentario, per altro molto emozionante.
La Eagle Pictures distribuirà comunque il lavoro di Broomfield nonostante le polemiche in corso quindi tutti pronti a scoprire chi era davvero, come si è formata, in cosa credeva, cosa amava la cantante dei record.
Whitney Houston: diva sfortunata che voleva solo essere normale ma la fama e soprattutto il marito e la droga l'hanno trascinata in un tunnel senza via di scampo. La sua morte è avvenuta per overdose di farmaci l'11 Febbraio del 2012 ma Whitney potrebbe anche essere morta di crepacuore. Crepacuore inteso come sofferenza massima: per non essere riuscita a riprendere in mano la propria vita, per non essersi mai sentita davvero amata e per non essere stata capace di rispettare se stessa.
Whitney è l'esempio lampante, lo ha detto lei stessa durante un'intervista, del fatto che i soldi non fanno la felicità perché questa va cercata dentro se stessi.
Vittima di uno show business che l'ha plasmata per accontentare il pubblico, Whitney Houston è salita alla ribalta a soli 19 anni, raggiungendo un successo planetario e aggiudicandosi un'infinità di premi, per poi ritrovarsi sotto l'attacco della sua stessa gente che non trovava nei suoi brani l'R&B dei neri ma il bistrattato POP, genere per antonomasia dei bianchi.
Con il suo Whitney - Posso essere me stessa? il regista ha voluto offrire il ritratto di una diva triste, che ha dato tantissimo al mondo senza mai ricevere la felicità e la serenità che meritava.
Ad aiutarla, nel suo cammino, c'è sempre stata l'amica fraterna Robyn Crawford, con la quale, per un certo periodo, si è pensato avesse una relazione, motivo per cui la madre di Whitney, la cantante gospel Cissy Houston, non vedeva di buon occhio la donna.
Robyn ha sostenuto Whitney durante il suo cammino e la difendeva quando ai tempi della scuola veniva presa di mira: sapeva a memoria le sue canzoni, ha cercato ripetutamente di tirarla fuori dalla droga, la seguiva ai concerti ed è stata suo direttore creativo. Ma quando è entrato in campo Bobby Brown, tutto è andato a rotoli: i due si contendevano l'amore di Whitney, litigando fino alle mani. E quando Robyn ha capito che per lei non c'era più posto, se n'è andata. Il suo allontanamento ha segnato la fine di Whitney, incapace di ritrovare in altre persone quella stessa complicità, quello stesso conforto, quello stesso sostegno.
Con Bobby bevevano e si drogavano; lui era un donnaiolo – sebbene lei lo abbia ripetutamente difeso – e ha fatto di tutto per farle perdere la fiducia in se stessa.
Il documentario racconta questo e tanto altro, regalando immagini e filmati inediti della star americana. Si apre con la chiamata al 911 di quella fatidica notte in cui la sua assistente Mary Jones la trovò senza vita nella vasca da bagno, “la mia bambina”, e prosegue sferrando subito il primo attacco verso noi poveri, nostalgici spettatori, con le dolci note di I will always love you, uno dei suoi successi più grandi, che segnò anche la fortuna di Guardia del Corpo, kolossal da 411 milioni di dollari guadagnati in tutto il mondo. Fu proprio Kevin Costner a volerla nel film e a suggerire al produttore di farle cantare a cappella la prima strofa del brano. Il resto è storia: la canzone, intrisa di malinconia, ha segnato i primi anni '90.
Estremamente generosa – basti pensare che con il suo patrimonio manteneva parenti e amici – e religiosa, Whitney sapeva di avere avuto in dono da Dio la sua voce e si sentiva in colpa per non essersene presa maggiore cura.
Nick Broomfield e il suo folgorante documentario mostrano l'altra faccia della medaglia, quella dell'insoddisfazione, della madre-padrona, del combattuto, torbido e funesto rapporto col marito. Nel corso del suo lavoro scorrono intensi primi piani in cui la cantante è pervasa dalla tristezza, altri in cui il suo sorriso luminoso sembra riaccendere in lei la speranza di una vita migliore. Le parole di amici e parenti si alternano ad immagini del tour europeo del 1999 dando una visione più chiara e completa di una delle cantanti più popolari di tutti i tempi.
Non lo diremmo mai eppure Whitney, come spiega Kenneth Reynolds della Arista Records, si preoccupava continuamente di essere accettata e aveva una pessima relazione con i suoi capelli, tanto da ricorrere spesso a parrucche.
Con un mix di testimonianze – interessantissima e commovente quella della sua guardia del corpo David Roberts -, immagini di Whitney bambina, filmati amatoriali di lei che fa gli sketch nella sala da pranzo e che prega con i coristi prima di andare in scena, ci viene restituita la storia di una cantante e attrice che non è riuscita a vivere la sua favola e che, finendo nelle mani sbagliate, ha pagato a caro prezzo la sua fragilità e forse anche la sua scarsa forza di volontà. Se n'è andata via troppo presto, a soli 48 anni, ma ha lasciato al mondo alcune tra le canzoni più belle del secolo.
Il suo talento naturale era riconosciuto da chiunque lavorasse con lei, il suo “timbro di voce angelico”, come lo ha definito il suo batterista, contraddistingueva lei e i suoi bellissimi brani. “Sono stata creata ma non sono io” dice Whitney in un'intervista. Forse la frase più esplicativa del suo tormento interiore. “Mi piacerebbe essere ricordata come una bella persona” ha detto, e noi lo facciamo. Perché “tutti sono stati responsabili della rovina di Whitney” come ha asserito la sua affezionata guardia del corpo, e lei ha la sola colpa di non essere riuscita a scindere ciò che le faceva bene da ciò che invece l'annientava. Al di là del crack, del matrimonio fallito, del padre che le fece causa, della madre arcigna che si è fatta detestare anche da Oprah Winfrey nel 2013, a noi di Whitney rimarranno la musica e la sua splendida voce.
Non la ricordiamo prossima all'anoressia come durante il tributo a Michael Jackson, né gonfia e sgraziata come dopo la disintossicazione. Ricordiamo invece il suo sorriso, la sua eterna malinconia, il suo viso perfetto e ascoltiamo, cantando a squarciagola, i suoi successi intramontabili.
Whitney, we will always love you.