Voyage of Time: Life’s Journey

Terrence Malick è uno che fa e farà sempre parlare di sé. A partire dal fatto che la sua popolarità è, a oggi, inversamente popolare alla sua ‘visibilità’. Un regista che ha fatto della sua avversità alle scene popolari la sua vera arma vincente, scalando quasi nell’anonimato i favori dell’ambiente cinematografico per raggiungerne addirittura i vertici. Dai tempi de I giorni del cielo o La sottile linea rossa il suo approccio al cinema è sicuramente cambiato, tanto in termini di tempistiche quanto come interesse verso le opere da realizzare. Ma la sua capacità di stupire lo spettatore, quella no, è rimasta invariata nel tempo.

Per il Festival di Venezia 73 l’attesissimo Malick (uno dei nomi più celebrati dell’intero cartellone del concorso) fa ‘sbarcare’ il suo documentario sulle origini della vita e dell’universo dal titolo Voyage of Time: Life’s Journey - un progetto fortemente voluto e tenuto a lungo in cantiere. Il risultato è un’opera “summa” che raccoglie quello sguardo documentaristico già presente nei suoi ultimi tre lavori (facenti capo alla trilogia sull’esistenza) e in particolare in The Tree of Life, per (ri)creare quel gioco di alternanze e giustapposizioni di immagini che incarnano e raccontano il nostro Universo.

Attraverso una selezione specifica ma non necessariamente cronologica di immagini (dal magma incandescente che crea le faglie passando per i ‘movimenti’ della natura e degli uomini), il regista statunitense getta uno sguardo sul mondo che ci ospita, fotografando l’immensamente grande e l’incredibilmente piccolo, e all’interno dei diversi mondi fatti d’acqua, di terra, d’aria. Per mezzo di quelle (in)vocazioni alla Madre terra (un ricorrente appello alla Mother), all’origine di tutto, a colei che ha generato il mondo in cui viviamo, Malick fotografa e riassume il nascere e il fluire della vita attraverso le immagini potenti del suo incredibile occhio fotografico, che suggella la Natura delle cose come fossero veri e propri quadri dell’esistenza terrestre in evoluzione (nascita, vita, morte).

La nitidezza, il realismo e la precisione delle sue riprese virano il reale in sognante, il logico in trascendente, il senso in essenza. Certamente (in questi ultimi anni, almeno) più poeta e filosofo che regista, con quest’ultimo lavoro Malick si scrolla di dosso quasi del tutto i residui della componente narrativa ancora presente nei suoi ultimi film, per dedicarsi anima e corpo alla contemplazione estatica del mondo che ci (e lo) circonda. Ed infatti più che un film questo suo viaggio nella vita e nei meandri del cosmo è un omaggio al pianeta terra, alla spiritualità che rende ogni essere (animato o inanimato) una componente essenziale del nostro vivere qui, e ora. Ogni cosa, dai grandi animali marini ai piccoli insetti terreni, recupera qui il suo spazio. Spazio e tempo. Ed è proprio con questi due valori che il ‘terribile’ Terry gioca di continuo, dilatandone l’ampiezza e incrociandone le coordinate. Il tempo dei dinosauri sfiora quello degli uomini, e le acque incontrano cieli e terre.

La voce della narrazione, fuori campo (affidata a Brad Pitt e Cate Blanchett), resta forse l’unica nota stonata, fuorviante di un cinema che rifiuta ogni spiegazione per lasciarsi invece essere, e basta. In ogni caso, il magnetismo e la superbia visiva delle immagini che corrono davanti agli occhi, sono già da sole e ancora una volta motivo sufficiente per osservare e cercare (ognuno nel proprio) il valore ultimo di questo viaggio della (e nella) Vita. L’ennesimo ma senz’altro non l’ultimo del celebre regista texano.

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