Venezia 74: Alexander Payne apre il Festival con il 'piccolo mondo' di Downsizing
Ancora sul cammino tortuoso, sulla ricerca del sé, della felicità, di una strada di riconciliazione con la vita, e in fondo anche speranza di sopravvivenza, l’americano - cosiddetto - ‘neorealista’ Alexander Payne apre il 74° concorso del Festival di Venezia con il titolo Downsizing, letteralmente “rimpicciolirsi”. Un’opera che cavalca l’espediente di una scoperta medico-scientifica sensazionale (ovvero la possibilità di restringere l’uomo a misure infinitesimali) per indagare le molteplici possibilità e mutevoli ‘proporzioni’ offerte dalla vita nel suo breve o più lungo tragitto. A fare esperienza diretta di questa ‘scoperta’ sarà il protagonista Paul Safranek (Matt Damon) ritrovatosi a lasciare la sua vecchia vita a grandezza naturale ma dal potenziale assai striminzito (aspettative disattese, instabilità economica, sottile senso di inadeguatezza e infelicità) per reinventarsi nella vita in miniatura di Leisureland. Un paradiso reclamizzato dove tutto dovrebbe essere a portata di mano e raggiungibile, e dove gli sparuti risparmi accumulati dovrebbero diventare gruzzoli generosi con i quali campare di rendita. Ma, anche, un paradiso strumentalizzato nel suo paradosso, e dove i “nuovi” cittadini lillipuziani dovrebbero pesare meno sull’economia globale e sull’ambiente circostante. Eppure, come si suol dire, non è tutto oro quel che luccica, e la preannunciata ipotizzata panacea mostrerà ben presto il suo fianco debole. Gli stessi dolori e le stesse disuguaglianze sociali della vita come la conosciamo riemergeranno, infatti, con la stessa ‘imponenza’ di prima, a dispetto delle vite lasciate indietro e della nuova “proporzione” di cose.
In una struttura a matrioske dove il concetto di benessere, salvezza, e ridimensionamento della vita si scontrano sempre con gli stessi paletti indotti da consumismo, e legge del potere economico in generale, Payne costruisce un percorso tortuoso dove il suo Safranek (di cui nessuno nel ‘nuovo mondo’riesce mai a pronunciare bene il cognome) è ripetutamente messo di fronte a un bivio, costretto a scegliere tra la vita ‘reale’ e una ipotetica proiezione di salvezza. Una bella idea di fondo con un sottotesto controverso e addirittura inquietante che Alexander Payne non riesce purtroppo a sfruttare con armonia e giusto senso della narrazione. I nuovi abitanti del ‘mondo’ ridotti a minuscoli puntini, in grado di comprare una megavilla a due soldi o sedere cavalcioni su un pacco di biscotti, rappresentano nel contempo utopia e limite del progresso, della scienza, dell’evoluzione, militi ignoti di una guerra economica di cui non sono mai i beneficiari ma sempre gli impotenti burattini. Soffrendo il peso di una narrazione eccessiva (140 i minuti di film) e di uno sviluppo che transita da una fase all’altra con equilibrio incerto, a sfavorire in primis quest’ultimo film del regista del Nebraska è l’inconsistenza delle evoluzioni narrative che abbracciano e lasciano cadere lungo la via riflessioni e sensazioni senza mai approfondirle sul serio. Quello che era lo spazio di manovra esistenziale di Sideways o, ancor più, di Nebraska, con una messa a fuoco sull’on the road dei protagonisti a scavare nei meandri della ricerca del sé, appare qui come un processo assai meno consistente, intenso, profondo.
Ci si aspettava senz’altro qualcosa in più da questo regista che ha saputo regalare nel tempo piccoli gioielli filmici e di riflessione. Un’apertura di Festival che dunque non convince, almeno non del tutto, e che di certo non ha raccolto lo scroscio d’applausi di un anno addietro quando il film d’avvio fu, il poi premiatissimo e acclamatissimo, La La Land.