Une Vie
Adattando per il cinema l’omonimo romanzo di Guy De Maupassant del 1883, il francese Stéphane Brizé aggiorna al tempo presente una storia ambientata nella Francia, più precisamente Normandia, di due secoli fa. La riuscita dell’operazione è per molti versi sorprendente.
Brizé (classe 1966) aveva catturato l’attenzione del panorama cinematografico internazionale nel 2015, quando con La Loi du Marché (la legge del mercato) aveva ottenuto a Cannes una standing ovation alla prima stampa, e il conseguente Premio al Miglior attore per il suo protagonista, il bravissimo Vincent Lindon. Un film che marcava stretto l’attualità della crisi, di mancanza del lavoro e della difficoltà di un padre di famiglia di rimettere in piedi la propria vita ripartendo proprio dalle opportunità lavorative. Al Festival di Venezia 2016, con Une Vie, Brizé cambia totalmente scenario, riavvolgendo il nastro del tempo e parlando di una Francia molto meno contemporanea.
La storia di Jeanne e della parabola drammatica di donna, madre e moglie trova la rotondità di una vita vissuta nella nostalgia e nella speranza di un amore desiderato e trovato solo per un breve frangente, tra specchi d’acqua e riverberi di luce. Nonostante la connotazione assai definita e precisa del contesto storico e sociale, la storia di Jeanne (interpretata dall’ottima Judith Chemla) è dunque una storia universale di donna, o almeno così riesce a rivelarsi grazie all’ampio respiro che Une Vie sceglie e dispiega.
L’ispirata e magistrale regia di Brizé raccorda con ellissi poetiche, salti temporali tra presente e ricordo, per definire con raro trasporto i punti chiave del romanzo di Maupassant, in un adattamento che si fa carico dei limiti della storia, ma che meglio di così (ai nostri occhi moderni) non sarebbe potuto essere. Il retaggio di una femminilità ingabbiata nel proprio ruolo, così come il carattere di estrema semplicità e ingenuità accordati alla protagonista rappresentano gli aspetti chiave che dall’opera di Maupassant transitano funzionalmente nell’opera di Brizé. Tutto ciò per merito di una messa in scena fluida e contemplativa, che cattura nel calore di una fotografia eterea tutto il dramma di un mondo sbilanciato a sfavore della donna, in cui la cesura con l’infanzia segna l’avvento di quel Paradiso perduto che da un certo punto in poi connoterà l’esistenza di Jeanne.
Questo film, pensato e ‘commissionato’ prima de La legge del mercato rappresenta dunque per il regista francese una sfida superata a pieni voti. Usando con estrema abilità e coordinazione l’artificio della messa in scena, Brizé sintetizza l’odissea esistenziale di Maupassant in un sottile gioco di luci e ombre, e altrettanti sguardi attraversati da felicità e disperazione. Il limite di un adattamento di questo tipo trova dunque nell’intuito e nella ‘grazia’ del regista francese l’occhio giusto per accorciare la distanza tra il tempo dell’opera e i tempi ‘nostri’. Solitudine, devozione, amore, sacrificio, onestà e disonestà convergono in quest’opera fluida di contrasti estremi e inquadrature splendide per raccontare la semplicità di una donna che si fa dramma per l’altrui aridità e disonestà, e per la scorrettezza endemica del mondo circostante. Incanto e bellezza per sempre scalfiti da una buona dose di egoismo e amoralità, per una storia che non è poi così ‘lontana’ come può sembrare.