Underworld: Blood Wars

Non c’è inizio, non c’è fine, c’è solo il divenire.

Dopo un veloce riassunto dei quattro capitoli precedenti – dei quali, ricordiamo, il terzo fu un prequel – si passa immediatamente ad una spruzzata di splatter con Kate Beckinsale che, come di consueto, veste i sexy panni della succhiasangue Selene, ancora una volta impegnata a difendersi dagli attacchi da parte dei Lycan, ma anche dagli stessi Vampiri, che l’hanno tradita.

Infatti, mentre viene affiancata nuovamente dal proprio simile David e dal padre di lui, ovvero Theo James e Charles Dance, è anche la Semira alias Lara Pulver interessata ad avere il suo sangue a darle filo da torcere in Underworld: Blood Wars, secondo tassello del franchise girato in tre dimensioni, nonché debutto nella regia cinematografica per la televisiva Anna Foerster, con alle spalle anche esperienze di effettista, direttrice della fotografia e seconde unità.

Perché l’ideatore della saga – e autore di Underworld e Underworld Evolution Len Wiseman figura soltanto in qualità di produttore della oltre ora e mezza di visione che, non priva di violente immagini comprendenti occhi perforati e, addirittura, una colonna vertebrale strappata a mani nude, strizza come sempre l’occhio ai seguaci dell’horror proto-videogame in stile Resident evil. Anche se, in questo caso, sembra essere, inoltre, la acclamatissima serie tv Il trono di spade a figurare tra i modelli presi in considerazione (d’altra parte, è da lì che proviene il citato Dance); man mano che gli immancabili toni dark provvedono ad avvolgere il tutto, stavolta immerso in una bianca ambientazione nevosa (le riprese si sono svolte a Praga).

Bianca ambientazione che, però, fa da scenografia ad un’operazione che non fatica a lasciare tranquillamente intuire la maniera in cui, ormai, le avventure seleniane sembrino procedere senza riservare nulla di originale ed innovativo. E ne è la concreta testimonianza il fatto che, al di là dell’irrinunciabile tripudio di effetti digitali (tra trasformazioni e perfino un licantropo diviso in due parti), i tempi di narrazione dilatati e piuttosto teatrali appaiano quale fallimentare stratagemma per poter camuffare la pochezza delle idee fornite dalla sceneggiatura e consentire loro di arrivare ad occupare la durata minima indispensabile di un lungometraggio destinato al grande schermo.

Quindi, contenti anche del finale aperto per un probabile sesto episodio, a rimanere soddisfatti sono, senza dubbio, esclusivamente i fan underworldiani... di sicuro noncuranti del fatto che l’insieme – fracassone nelle sequenze degli scontri, soporifero in quelle di dialogo e decisamente banale e prevedibile per quanto riguarda i risvolti della storia raccontata – non rappresenti altro che l’ennesimo pretesto in fotogrammi per portare avanti una vicenda già abbastanza povera nel capostipite e continuare a raschiare il fondo di una delle miniere d’oro della celluloide d’intrattenimento made in USA d’inizio terzo millennio.