‘Una settimana e un giorno’, originale elaborazione del lutto in chiave agrodolce
Il dolore per la scomparsa di una persona amata è molto difficile da sopportare per chiunque, ma se a lasciarci è un figlio, superare quello straziante distacco diviene quasi impossibile. La vita continua però il suo cammino e, non esistendo un manuale per l’elaborazione del lutto, ognuno vi reagisce a modo proprio. Nella splendida opera prima Una settimana e un giorno, il regista Asaph Polonsky, nato negli Stati Uniti ma cresciuto in Israele, affronta con grande originalità e un tocco di humor il complesso tema della perdita e di come ciascun individuo vi si rapporti.
Eyal Spivak e sua moglie Vicky hanno appena terminato le celebrazioni della Shiva – settimana di lutto ebraica durante la quale i membri della famiglia si riuniscono tradizionalmente presso la casa del defunto e ricevono visitatori in cordoglio – per la morte del loro unico figlio, un ragazzo di 25 anni ucciso da una grave malattia. Per la coppia sarebbe giunta l’ora di provare a tornare alla quotidianità, ma se per Vicky l’unica strada percorribile sembra essere quella di mantenersi perennemente occupata, tanto da voler riprendere al più presto il lavoro, ad Eyal la sola idea di vivere come se nulla fosse successo appare invece insopportabile…
Polonsky, classe 1983, stupisce per l’abilità con cui riesce a far sorridere - se non addirittura ridere - il pubblico, senza però fargli mai perdere di vista il dramma che i protagonisti stanno vivendo. La forza di questo lavoro sta quindi nel perfetto equilibrio tra tragedia e commedia, dove tristezza e pessimismo, fondendosi a cinismo e ironia, daranno corpo a un profondo quanto divertente momento di riflessione sulla soggettività della sofferenza. Se da un lato la figura di Vicky rappresenta una donna che, pur di non pensare all'accaduto, compie azioni comuni come tingersi i capelli o andare dal dentista cercando normalità in una circostanza che di normale nulla ha, dall’altro suo marito Eyal, rifiutando la routine, si muoverà in situazioni al limite del paradosso: del resto, cosa c'è di più paradossale della morte di un figlio?
Anche se ambientata in Israele, la storia raccontata dal giovane filmmaker israeliano ha un respiro universale che coinvolgerà di certo innumerevoli platee, i tanti e meritati premi ricevuti in diverse kermesse cinematografiche – Sofia Meetings, Haifa Film Festival, Jerusalem Film Festival e Semaine de la Critique a Cannes –, dimostrano d'altronde il grande interesse che un argomento di tal portata è in grado di suscitare. Ma, al di là della tematica del lungometraggio, sono molti gli elementi che contribuiscono all’ottima riuscita di Una settimana e un giorno, tra questi: la bravura delle star israeliane Shai Avivi, nel ruolo di Eyal, Evgenia Dodina in quello di Vicky, e Tomer Kapon nella parte di Zooler; l’elegante fotografia; la solida sceneggiatura. Unico piccolo neo di quest’opera d’esordio è una certa lentezza nel ritmo narrativo che qualche spettatore potrebbe forse avvertire.
Quando nostalgia, rabbia, strazio, dolore e solitudine occupano il vuoto lasciato da un’assenza insostenibile, ogni uomo, o donna, ha il diritto di reagire come crede, o può. E proprio questo è quanto Polonsky mette brillantemente in scena: il lutto, e le molteplici forme adottate per viverlo.