Una notte di 12 anni, opera straziante e magnifica sulla discesa agli inferi di Pepe Mujica e dei suoi compagni tupamaros
- Conosce la sua condanna?
- No, disse l’ufficiale...
- Non conosce la sua condanna?
- No, ripeté l’ufficiale…
- Sarebbe inutile comunicargliela, la leggerà sul proprio corpo.
Una notte di 12 anni, di Álvaro Brechner, inizia con una didascalia tratta da 'La colonia penale' di Franz Kafka, ed è proprio su questa frase che si incentra il terzo lungometraggio del regista uruguayano: una narrazione che induce il pubblico a sperimentare sulla propria pelle il livello di brutalità che la dittatura militare in Uruguay inflisse ai tupamaros José Mujica, Eleuterio Fernández Huidobro e Mauricio Rosencof, accusati di sedizione e tradimento. Dal 1973 al 1985 i tre ‘dissidenti’ vennero infatti rinchiusi in prigione, fatti sopravvivere in condizioni disumane e sottoposti a torture e a indicibili abusi per ben dodici anni.
Brechner, basandosi tanto sul libro Memorie del calabozo. 13 anni sottoterra di Huidobro e Rosencof che sulle testimonianza dirette delle tre figure più celebri dell’Uruguay, dirige un’opera potente, asciutta, straziante e magnifica: 122 minuti di fortissime emozioni. Spogliato quasi completamente da contorni ideologici, geografici e sociologici, Una notte di 12 anni si concentra esclusivamente sulla capacità di resistenza degli esseri umani dopo che siano stati privati di tutto: isolati, fuori dal tempo, senza punti di riferimento a cui aggrapparsi, bendati, costretti al silenzio, denudati, malnutriti, gettati in pozzi, incatenati e brutalmente colpiti sia nel fisico che nella psiche. Ed è in questa rappresentazione della crudeltà che Brechner si allontana dal racconto didascalico per abbracciare una dimensione corporea e tattile, realizzando un lavoro dove il tradizionale linguaggio cinematografico viene soppiantato da un cinema più fisico che narrativo: ciò che conta, più che il “capire” è il “sentire”.
Sì, perché fin dalla prima scena il calvario dei tre amici diventerà la croce che ogni spettatore si porterà dietro durante l’intera visione. La follia che per un lungo periodo accompagnerà la detenzione di Josè Mujica - conosciuto dall’intero mondo come Pepe Mujica, 40mo Presidente dell’Uruguay - , i volti emaciati e i corpi scarnificati di Eleuterio e Mauricio, le strette pareti delle celle e l’umidità che da queste trasuda sono soltanto alcuni degli elementi che scateneranno un livello tale di empatia tra protagonisti e pubblico in sala che quest’ultimo non potrà evitare di “sentirsi” anch'esso dilaniato nell’anima e nel fisico. Eppure, nonostante le inaudite violenze, il trio dei tupamaros continuò a lottare, giacché li si poteva privare di tutto tranne che dell’immaginazione, unica spinta interna che li aiutò a non soccombere a quel maledetto viaggio negli inferi terreni.
Brechner mette dunque in scena la sfida interiore che alcuni di noi hanno dovuto sostenere per la sopravvivenza, e lo fa con polso saldo utilizzando molti silenzi, scarsi dialoghi, numerosi primi piani, riprese più con macchina a spalla che fissa e un iniziale piano sequenza da brividi. I tre attori principali - Antonio Torre (José “Pepe” Mujica), Chino Darín (Mauricio Rosencof, scrittore e poeta), Alfonso Tort (Eleuterio Fernández Huidobro soprannominato El Ñato, Ministro della Difesa uruguayana fino alla sua morte avvenuta nel 2016) -, che durante la lavorazione del film hanno perso 15 chili ciascuno, sono straordinari, così come lo è la voce di Silvia Pérez Cruz nell’interpretazione di una commovente e memorabile versione di The Sound of Silence.
“Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia”: l’ordine dell’esercito era stato chiarissimo... ma i militari non sapevano con chi avessero a che fare.