Ultras, tifosi per sempre
Fare un film sul tifo organizzato non è un’operazione nuovissima.
Basti pensare a Hooligans del 2005 di Lexi Alexander, all’italiano Ultrà del 1991 del diretto da Ricky Tognazzi e naturalmente a Febbre a 90° del 1997, tratto da un romanzo di Nick Hornby e interpretato da un giovanissimo Colin Firth, a tutti gli effetti la summa filosofica su fenomenologia e passione sul tifo nel mondo del calcio.
Ci prova ora Francesco Lettieri, trentacinquenne regista napoletano al suo primo lungometraggio, con Ultras, prodotto da Indigo Film e disponibile sulla piattaforma streaming, Netflix
Dico subito che nonostante tutti i rischi connessi ad un film su un argomento così specifico e così sensibile, con più o meno illustri predecessori, l’operazione è pienamente riuscita.
Nel raccontare le storia di Sandro detto “Mohicano”, tifoso del Napoli, con un passato di violenza legata agli eventi calcistici, e della sua “crisi” esistenziale alla soglia dei cinquant’anni quando l’incontro con Terry, una giovane madre single, mette in discussione tutto quel sistema di “valori” e priorità legate al calcio ed al tifo organizzato che fino a quel momento avevano costituito l’asse centrale della sua vita, Lettieri riesce abilmente a sfuggire ai clichet di una vicenda che sarebbe potuta scaturire nello scontato e nel melodrammatico, considerando anche la location in cui il film è girato. Ci riesce sia grazie ad una tecnica cinematografica di alto livello (molto intrigante il piano sequenza iniziale con sullo sfondo la vecchia chiesa ed il mare) sia affidandosi ad un modello recitativo schietto e scabro che enfatizza una significativa misura di realismo.
Il film, dunque, racconta di una crisi personale e delle conseguenze di essa. Questa fa da filo conduttore per introdurci nei meccanismi di un ambiente che ogni volta che lo si analizza si fa fatica a comprenderne le perverse logiche che lo governano. Sono veri e propri organismi militarizzati con regole rigorose. Da qui l’onore ai caduti e ai “daspati” (coloro che hanno subito un provvedimento di interdizione dagli stadi per azioni violente commesse durante manifestazioni sportive), l’organizzazione di vere e proprie azioni di guerriglia contro le tifoserie avversarie, il reperimento dei mezzi e soprattutto il rispetto per gli anziani, veterani di tante battaglie nel passato. Su questo, si innesta il conflitto generazionale tra i combattenti di allora e i giovani emergenti che vorrebbero avere più spazio e poter prendere decisioni autonomamente. Un po’, come succede in Gomorra, la serie televisiva ed in altri film come ad esempio, La paranza dei bambini, gli ambienti delinquenziali, gli unici in cui generazioni abbandonate sembrano poter esprimere tutto il loro “potenziale” e soprattutto ribellarsi e farla pagare ad una società che li ha lasciati senza alcuna protezione, attirano ragazzi e ragazzini, come mosche al miele, per poi finire irretiti ed ingabbiati in una spirale dalla quale è quasi impossibile risalire. Spirale che genera odio, che genera altro odio creando un vortice senza fine. Dinamiche ben descritte nel film,dove il conflitto generazionale si confonde con il conflitto sociale e territoriale.
L’attore protagonista è Aniello Arena (ex appartenente alla camorra) cinquantenne dal fisico d’acciaio e dal sorriso triste e Antonia Truppo (due volte vincitrice del David di Donatello per la migliore attrice non protagonista: nel 2016 per Lo chiamavano Jeeg Robot e nel 2017 per Indivisibili.)
Il film, come forse non era evitabile, ha suscitato polemiche soprattutto da parte di alcune frange della tifoseria napoletana che hanno accusato il regista di aver rappresentato una situazione di alto degrado sociale e morale. A mio parere, sono accuse ingiuste. Il film è onesto e sincero e rappresenta uno spaccato della società in cui viviamo e che, ovviamente, non è una peculiare alla sola città partenopea.