Tre giorni dopo

Lo scenario d’ambientazione è il Pigneto, storico quartiere di Roma dove il melting pot si snoda in un dedalo di vie colorate da murales atti ad esprimerne l’anima artistica, ma anche dove l’integrazione razziale sembra aver finito con il tempo per generare un vero e proprio dislivello numerico tra italiani ed extracomunitari, tanto da arrivare a fondere le loro diverse tipologie di delinquenza.
Non a caso, non manca neppure una battuta relativa all’”invasione” locale degli stranieri nel corso della circa ora e venti di visione diretta dal Daniele Grassetti, visto ne Il bosco fuori (2006) di Gabriele Albanesi e Altromondo (2008) di Fabiomassimo Lozzi, il quale si avvale per questo suo debutto dietro la camera di ripresa della produzione di Daniele Mazzocca, autore del documentario L’erba proibita (2002).

Debutto che, proprio nel tentativo di lasciar emergere le atmosfere della frazione capitolina in cui Roberto Rossellini e Pier Paolo Pasolini girarono i loro Roma città aperta (1945) e Accattone (1961), pone il Francesco Turbanti de I primi della lista (2011), il Davide Gagliardi di Smetto quando voglio (2014) e il Valentino Campitelli di Questo piccolo grande amore (2009) rispettivamente nei panni dei tre giovani amici Matteo, Sandro e Nicola, i quali, perduta una partita di bigliardo con il dottor Carlo alias Giorgio Colangeli, criminale della zona, si ritrovano in un guaio ancora più grosso dal momento in cui sono costretti a nascondere nel bagagliaio dell’automobile del primo il cadavere di Pistacchietto, figlio tossico del malavitoso.  
Il Pistacchietto incarnato dall’Emanuele Propizio di Miami beach (2016) e che, misteriosamente deceduto all’insaputa del padre, fornisce l’ingrediente necessario per accostare l’insieme ad una certa cinematografia non troppo seriosa risalente agli anni Novanta, da Piccoli omicidi tra amici (1994) di Danny Boyle a Pulp fiction (1994).
Perché, man mano che viene coinvolta nella vicenda anche la barista argentina Olimpia incarnata dalla Aylin Prandi di Diaz – Don’t clean up this blood (2012) e che si sguazza tra degrado e incontri con tutt’altro che raccomandabili individui, non è affatto a prendersi sul serio che propende lo spaccato di vita inscenato.

Spaccato di vita comprendente anche un furto in chiesa e che, caratterizzato da un discreto ritmo narrativo e volto a lasciar intendere che l’esistenza è una infinita fila di prove ed esami, non solo vanta bravi protagonisti, ma, pur senza eccellere, individua il suo maggiore punto di forza nella capacità di non apparire mai prevedibile grazie agli imprevisti dispensati dalla sceneggiatura, scritta dallo stesso regista in collaborazione con Matteo Berdini, Chiara Laudani, Enrico Saccà e Fabrizio Vecchi.