Torino Film Festival: Daphne, Peter Mackie Burns firma una commedia brillante, volutamente “estranea” al romanticismo della vita
Daphne(una bravissima Emily Beecham) vive a Londra, ha circa trent’anni, i capelli rossi, un pessimo rapporto con la madre; ama i serpenti, leggere Žižek, gli incontri occasionali, cucinare (anche se non è mai soddisfatta dei suoi nuovi piatti), e vivere la vita un po’ come viene. Lavora in un bistrò dove s’impegna ma solo in parte, e nonostante le sue ‘piazzate’ si tiene stretto il lavoro grazie allo “speciale” rapporto che la lega al proprietario del locale, Joe. Un giorno, per caso, assiste a una scena di violenza e si ritrova quasi costretta a soccorrere un uomo mai visto né conosciuto prima. Un episodio fuori dall’ordinario che forse cambierà il suo modo di vedere la vita, o forse no, ma senz’altro muterà qualcosa di quel frangente, e le aprirà un varco in più sul mondo circostante. Anche se poi, chissà, Daphne continuerà a piroettare leggiadra su sé stessa come ha sempre fatto. E a essere… semplicemente Daphne.
Titolo inglese in concorso al Torino Film Festival 35, Daphne di Peter Mackie Burns (vincitore a Berlino 2005 dell’Orso d’Oro con il corto Milk) è un’opera prima vitale e piena di colori, che a partire dal rosso ribelle della chioma della protagonista avvolge poi ogni minuto di film e ogni sua immagine. La vita di questa trentenne londinese simpatica e scapestrata, le sue idiosincrasie (è capace di liquidare lo psicanalista perché ha tutti libri di Harry Potter sullo scaffale), ma anche i suoi pregi (ogni giorno prepara un panino da lasciare a un senza tetto di quartiere), sono senza dubbio forma ed essenza del film. Emily Beecham veste l’opera da capo a piedi, conferendo alla istrionica protagonista dai capelli rossi ogni caratteristica, tic e movenza che fanno di lei un’esistenza incompiuta ma interessante, a tratti quasi ipnotica. Come un mosaico capace di prendere forma pietra dopo pietra il film tratteggia poco alla volta e in maniera creativa ed artistica luci e ombre di una personalità sui generis, e per molti versi (stra)ordinaria. Il suo essere fuori dal baricentro della vita, o semplicemente non avviata su quella che si pensa debba essere una vita a quell’età e in quei luoghi, è ciò che rende infatti Daphne una protagonista affascinante, una sorta di ruota panoramica sulle vite come lei non allineate, per certi versi incompiute, o forse solo diversamente compiute.
Il regista Mackie Burns imprime alla sua opera il colore e la vitalità della vita, il cinismo e il sarcasmo che la contraddistinguono, la malinconia che le avvolge, generando una tavolozza di toni dove è facile ritrovarsi o rispecchiarsi. Tutte caratteristiche servite non solo dal ritmo della regia ma anche dalla freschezza e dal guizzo costante della scrittura di Nico Mensinga, con dialoghi dinamici e perfettamente capaci di seguire la circolarità della storia, che mescolano sapientemente ironia e malinconia. Un dinamismo autoriale che trova poi risposta perfetta nell’eclettismo della stessa “Daphne”, anima e titolo del film. Il suo corpo esile, il suo abbigliamento eccentrico, i capelli rossi quasi sempre spettinati, l’andatura dinoccolata, sono i molti tasselli di un film dalla vitalità contagiosa, con la grande capacità di ricreare su schermo un personaggio reale e affascinate, coinvolgente, uno di quelli con cui molto probabilmente si vorrebbe uscire a prendere un caffè o scambiare quattro chiacchiere, per comprendere meglio tutte le radiofrequenze della vita. Ma quelle belle, varie, sregolate e imperdibili. Quelle che, in fondo e per paradosso, danno anche un senso alla convenzionalità delle cose.