Tom à la ferme
Tom ha da poco perso il suo grande amore Guillame. Dolente e con il cuore gonfio, milioni di parole di cordoglio strozzate in gola, si mette in viaggio da Montreal verso la casa d’origine del suo amore perduto, una remota fattoria della polverosa e desolata provincia canadese. Al suo arrivo e durante tutta la sua permanenza molti saranno i segreti e le verità che quella fattoria a poco a poco rivelerà sulla vita e sugli affetti del suo ex. Una madre (Agathe) ignara dell’omosessualità del figlio, un fratello (Francis) omofobo e violento, un luogo da cui si è fuggiti presto (sedici anni) pur di vivere senza riserve, ricatti e (op)pressioni la propria vita.
Il luogo remoto, tra mungitura e vacche da accudire, segnerà nel profondo il sentire del giovane uomo in cerca di una propria elaborazione del lutto, e attraverso la ricerca disperata di una qualche condivisione con la famiglia del defunto. Un momento di rivelazione e appartenenza che sarà però procrastinato, negato fino all’ultimo, mutando questo viaggio reale dalla metropoli alla campagna, in un percorso interiore e doloroso, segnato dalla paura, dal pregiudizio, dal rifiuto. Un viaggio comunque mosso lungo il sentiero di una conoscenza dolorosa ma necessaria, e in nome del precetto che, comunque e in ogni caso, è solo ciò che non conosciamo che ha realmente il potere di ucciderci.
Al suo quarto lungometraggio (Tom à la ferme - realizzato nel 2013 alla ‘tenera’ età di 24 anni e portato in Italia a tre anni di distanza dalla Movies Inspired), Xavier Dolan infila un carosello esasperato di sentimenti non concilianti che nascondono retroscena da vero e proprio thriller. Nel contesto per nulla bucolico di una fattoria dove il bianco del latte munto si mischia al rosso sangue delle ‘ferite’ riportate, dove amore e orrore convivono confinati da una lunga strada polverosa, il Tom di Dolan (da lui stesso interpretato) è ancora una volta uomo gettato oltre la rupe, esistenza costretta a elaborare il trauma della vita e del potere logorante di certi rapporti - famigliari e non.
Del dolore e dell’orrore degli affetti, Xavier Dolan, enfant prodige oramai seguito e idolatrato come vero e proprio autore di culto (che non ha però nemmeno ancora sfiorato la soglia dei trent’anni), riesce a parlare in modo del tutto personale, interiore, unico. Mischiando il potere immersivo delle inquadrature al suono ‘violento’ delle parole, delle risate, delle lacrime, e di tutto ciò che va in scena per descrivere la realtà emotiva di un momento, di un’immagine, Tom à la ferme (basato sull'omonima opera teatrale scritta da Michel Marc Bouchard), è l’immagine congelata di un progetto di verità disperato (come recita anche un verso dello splendido pezzo di chiusura del film I’m going to a town - “They never really seem to want to tell the truth”), che si trascina in una via crucis umana tra mistificazione, violenza e attrazione.
L’identità, la ricerca del sé, raccordati nell’estrema sofferenza di questo cammino sempre tutto in salita, è un po’ l’anima del cinema di Dolan.
La stessa anima che in Laurence Anyways brillava nella policromia di un sentimento ‘nuovo’, tutto da comprendere, e che qui si logora tra terra e spighe di grano, che sono belle ma appuntite, e feriscono come lame. Un’opera che sembra quasi immobile in superficie ma che scava dentro come tutte le opere di questo talentuosissimo giovane regista, sorprendentemente in grado di bilanciare il suo trascinante guizzo creativo negli equilibri di storie che hanno per soggetto la malia e il veleno, l’amore e l’orrore dei legami di sangue o dell’anima, e per oggetto la ricerca costante, ossessiva e irrinunciabile di un proprio posto del mondo.