Tito e gli alieni: un racconto immaginifico volto a esorcizzare il dolore della morte e la paura dell’ignoto

Il Professore (Valerio Mastandrea) ha perso la moglie, ma non si rassegna all’idea. Relegato nel deserto del Nevada accanto all’area 51 e impegnato nella segreta creazione di un decoder di ultima generazione (che decifra lingue e comunica meglio di qualsiasi altro umano al mondo) in grado di entrare in contatto con lo spazio profondo dell’universo e, forse, di creare una comunicazione con il mondo dei morti, il Professore vive però sprofondato nell’apatia di un divano adagiato nel nulla e trascorre le giornate a intercettare qualsiasi suono o segnale che provenga dallo spazio circostante. Una routine che include solo le consuete visite di Stella, ragazza energica e solare che oltre ad ‘accudire’ il professore organizza matrimoni spaziali. A destare però l’uomo dal suo torpore esistenziale giungeranno ben presto i due nipoti figli del fratello Fidel: Tito - di sette anni - e Anita - di 16 – due vulcani di energia e idee, sempre in litigio fra loro come si conviene tra fratello e sorella, ma uniti oltre che da un forte amore fraterno anche dal dolore profondo per la recente perdita del genitore. Un dolore che in quella terra lontana e ‘aliena’ dalla loro Napoli riusciranno forse anche un po’ a lenire.

Paola Randi dirige la sua opera seconda dal titolo Tito e gli Alieni (presentata con successo al Torino Film Festival 2017) realizzando un racconto toccante e immaginifico che esorcizza il dolore della perdita così come la paura dell’ignoto. Scaraventati in una terra brulla e lunare che dovrebbe appartenere agli alieni, ma che in realtà è tutta ‘umana’, Il piccolo Tito, sua sorella Anita, il Professore malinconico e la vitale Stella abiteranno una dimensione fiabesca che eleva i dolori terreni e costringe gli umani a una elaborazione più alta, leggera e trasognata del lutto, declinato in tutte le sue forme.

Una “bolla” esistenziale dove esorcizzare il proprio dolore equivale a metter a fuoco, anche solo per un’ultima volta, l’immagine inafferrabile e la voce lontana di chi si è perduto ma vive ancora forte nel proprio cuore. Un processo lento ma catartico che la Randi esegue mettendo a confronto l’istinto bambino alla razionalità adulta. Il folclore di matrice ‘napoletana’ e la spontaneità dei ragazzi  entreranno infatti in rotta di collisione, ma poi subito dopo anche in costruzione, con le idiosincrasie del professore smarrito interpretato dal sempre bravissimo Valerio Mastandrea, uomo alla ricerca di un disperato segnale dall’aldilà spazio/temporale. Un segnale che sembra dover passare per complicati algoritmi o sistemi artificiali e che poi, invece, si tradurrà per la voce decisa e le parole semplici di un bambino addolorato che ha l’urgenza, la necessità, seppure impossibile, di parlare con il proprio padre.

Con Tito e gli alieni la Randi semplifica l’immaginario della Morte, lo rielabora attraverso l’esuberanza del contesto ‘alieno’ e lo sintetizza infine attraverso i valori semplici di una fiaba cristallizzata nel suo lieto fine, fotografata in una strada ancora tutta da compiere. La regia funzionale e creativa assieme alla leggerezza del registro, sempre a cavallo tra sacro e profano, dramma e commedia, reale e surreale, permette a Tito e gli alieni di compiere un giro a 360 gradi nel cuore dei suoi protagonisti, eroi in lotta con una solitudine da condividere e l’amore che resta, dei e per propri cari.

Suggestivo e poetico, trascinato dallo straordinario carisma di Mastandrea e da due piccoli attori vulcanici (menzione speciale per il travolgente Tito di Luca Esposito), il film della Randi è un piccolo miracolo d’emozioni, forte di una capacità comunicativa così sincera da sembrare per certi versi davvero quasi ‘aliena’.