The nice guys

Con l’anima e il corpo di un Russell Crowe in evidente sovrappeso, uno si chiama Jackson Healy ed è un detective senza scrupoli che picchia le persone per lavoro; l’altro, incarnato da Ryan Gosling, è Holland March, investigatore privato molto poco distante dall’essere un volgare truffatore.
Due (im)perfetti idioti che, alleatisi per risolvere sia il caso di una ragazza scomparsa che quello della morte di una porno star apparentemente non legati tra loro, si ritrovano a scoperchiare una cospirazione di enormi proporzioni, inciampando in questioni che si mostrano incapaci di gestire.

E, con Kim Basinger nei panni della Judith Kutner che li ingaggia, è proprio su questa poca propensione al far apparire il tutto eccessivamente serioso che Shane Black provvede a rispolverare il buddy movie, sottogenere cinematografico costituito da storie di amicizia tra due persone dello stesso sesso e che fu proprio lui a rinnovare, sceneggiando nel 1987 l’osannatissimo poliziesco in salsa ironica Arma letale di Richard Donner.
Filone al cui interno è tranquillamente classificabile anche questa sua terza fatica dietro la macchina da presa per il grande schermo, immersa nella marcia Los Angeles del 1977 e volta a generare situazioni comiche anche grazie al coinvolgimento di Holly alias Angourie Rice, figlia minorenne del già citato Holland.

Del resto, insieme alle imbranatissime imprese del padre – che non manca neppure di avere un’esperienza onirica con un’ape gigante e che arriva a vedere l’ex presidente degli Stati Uniti Richard Nixon in un’allucinazione – è proprio il trovarla infiltrata in un universo riservato solo agli over 18 ad offrire occasioni per ridere; man mano che Jackson afferma in maniera esilarante che il matrimonio è comprare una casa per una persona che odii e che, tra botte da orbi e spargimenti di cadaveri, sfodera metodi da machismo reaganiano anni Ottanta.
Un decennio la cui lontananza, però, è testimoniata soprattutto da un epilogo non positivissimo come lo sarebbe stato ai tempi del tanto discusso “sogno americano”, guardabile nel XXI secolo sempre più in qualità di illusione di una vittoria mai avvenuta.

Perché, mentre ci si intrattiene in maniera efficace trascinati da un discreto ritmo generale ed il tutto viene accompagnato da una nutrita colonna sonora spaziante da Papa was a rollin’ stone dei Temptations a A horse with no name degli America, è impossibile non avvertire nel tutt’altro che prevedibile script - non distante nell’intreccio dall’esordio registico blackiano Kiss kiss bang bang – un forte retrogusto politico dal sapore esplicitamente anticapitalista.