The Idol
Gaza, territori occupati della Palestina, 2005.
Una regione sconquassata fuori e dentro, dove le bombe hanno divelto gli edifici e menomato le persone. Poche aspettative, quasi nessun sogno.
Non per Nour. Lei, bambina maschiaccio dagli occhi di tigre e dal carattere ribelle (non vuole andare in sposa a nessuno), è infatti convinta che un giorno diventerà famosa e cambierà il mondo, suonando nella band assieme al fratello Mohammed dall’ugola d’oro (“benedetta sia la tua voce” non fa che dirgli la gente) e ad altri due loro cari amici.
Arrabattandosi e cacciandosi anche nei guai per procurarsi qualche strumento, Nour avvierà gli altri a quel sogno che appare in quel momento, nella loro terra di morte e disperazione, così impossibile, irrealizzabile, quasi un miraggio.
Eppure, anni dopo (precisamente nel 2012), proprio suo fratello raccoglierà appieno quel desiderio - apparentemente seppellito sotto le macerie di anni di drammi e dolori - per farlo proprio, lottando con la sua sola voce per riscattare il sogno di quei quattro amici, e di una terra disabituata a gioire, da troppo tempo assuefatta al pianto.
Il luccichio e il clamore riscosso grazie al talent the Arab Idol saranno infatti i mezzi per far conoscere la storia di Muhammad, divenuto infine simbolo di una lotta pacifica e “dei talenti” contro il male dei conflitti.
Qualcuno lo ha paragonato a The Millionaire proprio perché The Idol ripercorre quella stessa parabola di ragazzo senza speranze che grazie al mezzo mediatico (il Quiz Show o Talent che sia) trova la scalata verso il successo.
In realtà tra le immagini iniziali c’è forse più di Trash, film vincitore al Festival di Roma 2014, che similmente traeva spunto narrativo (anche se lì eravamo nelle favelas brasiliane) dalle storie di bambini campati con poco o niente, abituati a muoversi e arrabattarsi da soli in una terra di poche speranze e diffusa miseria.
The Idol del regista Hany Abu-Assad e ispirato alla vera storia del cantante Mohammed Assaf, pone invece a confronto la realtà drammatica del conflitto (esacerbata e resa quasi catartica dall’evento di un dramma personale) alla magia leggera del sogno, del saper sognare una vita migliore anche quando la realtà sembra non lasciare spazio alcuno all’immaginazione.
La storia è nobile così come i valori che intende veicolare, ma la struttura del film di Hany Abu-Assad (regista candidato all’oscar per Paradise Now e Omar) è debole, naif, sviluppata su dialoghi e svolte narrative che risultano forzati, o comunque privi della giusta naturalezza.
Il racconto di formazione e anche il tono fiabesco dell’opera ne escono così rallentati, sminuiti, incapaci fino in fondo di raccogliere e restituire l’importanza del messaggio di pace serbato nel sogno di un comune palestinese divenuto qualcuno, in barba al proprio destino.
Un messaggio di pace e sani valori custodito invece soprattutto nelle polverose immagini di repertorio che riconsegnano ai posteri i tantissimi palestinesi esultanti per quella vittoria, eccitati all’idea di vivere per un attimo il sogno chiudendo gli occhi di fronte alla brutale realtà di tutti i giorni.