The habit of beauty

Fedor Dostoevskij ne L'idiota, lascia dire al protagonista una delle frasi più celebri della letteratura di ogni tempo e di ogni luogo: “La bellezza salverà il mondo”. Si tratta di una delle frasi più discusse e più oggetto delle più svariate interpretazioni, non priva di ambiti estremamente problematici. Uno di questi viene riassunto nella stessa opera di Dostoevskij da un altro personaggio: “quale bellezza?”. Nel film di Mirko Pincelli la bellezza gioca un ruolo fondamentale, non soltanto come un qualcosa di effettivamente salvifico (e questo elemento è presente), ma come un qualcosa al quale ritornare inconsciamente, anche se non si comprende bene il senso e lo scopo di questo ritorno. 

Lo spunto iniziale è la lacerazione di una coppia a seguito della più grande tragedia che possa capitare a un uomo e una donna: la perdita di un figlio. Ernesto è un fotografo che ha smesso di ricercare la bellezza nelle grandi opere che ne avevano decretato il successo, mentre Elena non riesce a proiettare la propria vita al di là della stanza del figlio scomparso. Il ponte tra i due sembra incolmabile, finché non compare nella loro vita Ian. Ernesto conosce questo ragazzo inglese in prigione, mentre insegna i rudimenti della fotografia a ragazzi con un retroterra problematico. Quindi quella che all'inizio poteva essere una semplice storia di coppia, diventa un romanzo a tre, con una complessa ramificazione di vite e di relazioni nella Londra al giorno d'oggi.

I pregi del film di Pincelli sono molti: una grande accuratezza nello studio delle inquadrature per ricreare ambienti e atmosfere psicologiche, anche a seconda dei punti di vista dei vari personaggi; la grande delicatezza nel trattare temi molto difficili e spesso “mal” frequentati a livello cinematografico, come il tema della perdita, della malattia e del disagio sociale; infine, la capacità di proporre il tema della riconciliazione senza cadere nella retorica che molto spesso è stata una vera e propria malattia del cinema italiano. Avrebbe fatto una differenza sostanziale un maggiore coraggio in sede di scrittura, molto pulita e consequenziale nell'andamento, ma priva di particolari sorprese nell'esito. La sola vicenda di Ian riserva qualche sorpresa interessante, ma questo senso di scelta personale che rompe la tradizione avrebbe potuto essere generalizzato a tutti gli altri personaggi. Nulla da eccepire sullo studio della psicologia e nella grande attenzione riservata all'immagine, che si prende anche il rischio di percorrere con successo il sentiero della sequenza onirica, terreno spesso molto scivoloso nel cinema d'autore. Anche la diminuzione della presenza della parola come elemento narrativo è senza dubbio lodevole, ma nonostante questo molte delle relazioni nodali del film non riescono a sfilarsi da binari già collaudati a livello cinematografico. 

Il cast riesce per fortuna a dare una grande concretezza ai personaggi anche al di là della sceneggiatura. Quello che resta di questo film è il tema di fondo, che alla fine è l'idea della liberazione dal passato come unico gesto di affrancamento personale e familiare, anche se questo allontanamento non può mai essere davvero definitivo o privo di pericoli. Quello che si può concludere è che l'esordio nel cinema di finzione di Mirko Pincelli può lasciare ben sperare per il futuro.