Takara - La notte che ho nuotato, un gioiello cinematografico da trattare con cura
Esistono film che una volta visti li si dimentica nel giro di poche ore, altri invece che, come piccoli semi, hanno una intrinseca capacità di attecchire nelle nostre menti tanto da trasformarsi in indelebili gioiellini cinematografici. Ecco, Takara – La notte che ho nuotato è un granello prezioso destinato a mettere radici profonde: un’opera minimalista e apparentemente semplice dove regna un perfetto equilibrio tra precisione della messa in scena e magica poesia.
Takara, sei anni, si sveglia a causa dei rumori provocati dal padre, un pescatore che ogni notte si reca al mercato del pesce del proprio paese. Non riuscendo più a riaddormentarsi, il bimbo vaga nell’oscurità della casa fino a quando deciderà di fare un disegno per quel papà con cui trascorre così poco tempo. Più tardi, al posto di entrare a scuola, Takara (interpretato dallo strabiliante Takara Kogawa) andrà alla ricerca del padre per consegnargli il suo disegno…
Dopo essere stato presentato alla 74esima edizione del Festival di Venezia, grazie alla Tycoon Distribution questo incantevole lungometraggio della durata di appena 79 minuti arriva finalmente al cinema. I due giovani registi Daniel Manivel (Francia) e Kohei Igarashi (Giappone), conosciutisi al Festival di Locarno in occasione della premiere dei loro lavori, A young Poet e Hold your bretah like a lover, realizzano un film muto in cui la disarmante sincerità del protagonista, e il suo vagabondare, sedurranno gli spettatori dalla prima all’ultima scena. Sì, perché nonostante la totale assenza di dialoghi, quasi fosse un’ape attratta dal nettare il pubblico non riuscirà a distogliere lo sguardo dal grande schermo neppure per un attimo.
Tra le strade innevate del Giappone, i passi traballanti ma sicuri e i gesti comici ma al contempo malinconici di Takara vengono seguiti come un’ombra dalla cinepresa: un terzo occhio che rivela i dettagli sia del visibile, la magnifica genuina scoperta del mondo circostante, che dell’invisibile, la mancata relazione padre-figlio e la prospettiva di una vita tutt’altro che incontaminata. E se la purezza di Takara è infatti sottolineata dal candore della neve che fiocca copiosa e dall’insieme delle sue ingenue azioni digressive quali l’attenta e prolungata osservazione di un uccello che canta, la perdita di un guanto, la sbucciatura di un’arancia o il lancio di palle di neve contro un cartello stradale, un’intimità molto meno innocente è invece semi-nascosta da oggetti a prima vista insignificanti, come il cappello del padre attaccato a un gancio in cucina, che indica a Takara la presenza o meno del genitore in casa.
La bravura del duo Manivel-Igarashi sta dunque nell’essere riusciti a convertire in immagini poetiche una narrazione che si sviluppa su un doppio binario: il primo incentrato sulla ‘banalità’ quotidiana e sui suoni di tutti i giorni (le uniche note musicali qui presenti saranno quelle della Primavera, tratte da Le quattro stagioni di Vivaldi, quasi a voler contrapporre il fiorire di Takara al freddo inverno giapponese), il secondo, più sotterraneo e quindi potentissimo, focalizzato sui rapporti familiari e sulla futura e inesorabile perdita dell’innocenza.
Volendo confrontare un film a un libro, Takara – La notte che ho nuotato ricorda per molti versi Stoner, il romanzo di John Edward Williams: semplice ma dal significato profondo, comune e unico… proprio come Takara!