Song to Song, tradimento e perdono secondo Malick
A leggere le note di produzione, si scopre che questo film non avrebbe potuto girarsi in altro luogo se non ad Austin, Texas. “E’ una calamita per coloro che non vogliono essere omologati, è un luogo dove vanno tutti in cerca di un nuovo inizio”. Ed in effetti, quello che si racconta in Song to Song, l’ultimo film di Terrence Malick (a proposito, cinque film negli ultimi 5 anni, dopo averne realizzati solo 4 in 32….) è la ricerca di nuovi inizi (e nuove fini, e nuovi inizi) in un turbinio di coppie che come le trasmutazioni di una slot machine si combinano sempre in nuove combinazioni.
Sulla ruota fissa della coppia BV e Faye (Ryan Gosling e Rooney Mara) un musicista in cerca di successo e la sua compagna cantautrice (ma che vende case) si innestano le variabili di un produttore musicale (Michael Fassbender), un’avvenente cameriera (Natalie Portman), una affascinante donna di mezza età (Cate Blanchett). Il gioco delle relazioni è fatto di sospetti e blanda gelosia, pentimenti e sensi di colpa e perdono dispensato con sincerità. Il tradimento – per Malick – è vissuto più come un’ossessione intellettuale che come un disonore (quanto lontano dalla morale mediterranea??), non si urla e non si minaccia, ci sono ombre sui visi ripresi spesso con inquadrature oblique, e il disappunto è una folata di vento che smuove una tenda di un appartamento con attico e superattico. Anche le smodate passioni del produttore – uno svagato Fassbender a cui ormai è sufficiente una grinza del suo sorriso per sciorinare tutta la sua arte – sono descritte con un IO sempre in primo piano sottolineato dalla tecnica del monologo interiore ormai diventato un caposaldo della cifra stilistica del regista nato ad Ottawa settantaquattro anni fa.
Malick realizza l’opera alla sua maniera, dunque. I dialoghi sono eccezioni, il filo conduttore è il flusso di coscienza che si dipana come un serpente tra i due personaggi principali rendendoli quasi un’unica entità. Questi, spesso ripresi in case vuote o dall’arredamento essenzialissimo, quando non in ampi e disorientanti esterni, sono distorti dall’uso assassino di un grandangolo che ne altera le fisionomie contribuendo ad enfatizzare un senso di apprensione nello spettatore. Il cinema di Malick, peraltro, sia sa, non è un cinema per chi si vuole comodamente sedere su una poltrona a rilassarsi. La mente è sempre in esercizio bersagliata da immagini mai uguali una all’altra e nelle quali si coglie con chiarezza lo studio e la meticolosità spesa per ogni inquadratura ed ogni sequenza.
Il film, è anche un omaggio alla musica che fa di Austin uno dei luoghi più famosi per i Live. Nel ruolo di se stessi appaiono, tra gli altri, Iggy Pop e Patti Smith (quest’ultima in qualcosa di più di una comparsata ) e Val Kilmer si produce in un cameo (nel ruolo – estremo – del cantante del gruppo dei Black Lips, una band di Atlanta, nota per i suoi eccessi sul palco).
Certo, non siamo di fronte ad un’opera epocale come The Tree of Life . Il regista de I giorni del cielo e La sottile linea rossa ha imboccato da tempo una via più intimista ed interiore. La qualità però, non ne risente.