Sing street

Dedicata a tutti i fratelli del mondo, la oltre ora e quaranta di visione di Sing Street pare abbia cominciato ad avere origine durante il montaggio del Tutto può cambiare interpretato nel 2013 da Mark Ruffalo e Keira Knightley, quando il regista John Carney ha parlato al produttore Anthony Bregman dell’idea di costruire un film riguardante la propria adolescenza nella Dublino degli anni Ottanta; infatti, il secondo ricorda: “Mi ha raccontato questa storia davanti a un caffè, che poi è rimasta abbastanza simile a quello che abbiamo realizzato, su un ragazzo che si ritrova in ristrettezze economiche dopo che il padre perde il lavoro. Viene così trasferito dalla sua scuola privata in quella pubblica molto più cruda di Synge Street, dove viene subito picchiato e dove gli altri si approfittano di lui. Decide così di formare una band, fondamentalmente per proteggersi, ma anche per attirare l’attenzione di questa ragazza molto carina che, altrimenti, non lo noterebbe mai”.

E, se quest’ultima possiede le fattezze di Lucy Boynton, è l’esordiente Ferdia Walsh-Peelo a concedere anima e corpo al quattordicenne protagonista, intento a conquistarla proponendole di recitare nei videoclip del complessino che s’impegna improvvisamente a mettere in piedi; man mano che segue i consigli del fratello maggiore interpretato dal Jack Reynor di Transformers 4 – L’era dell’estinzione e che si trova a dover affrontare il bullismo, i genitori perennemente in lite ed il difficile rapporto con un insegnante.

Perché, mentre i Duran Duran compaiono all’interno di piccoli schermi accesi e non manca neppure un omaggio sonoro al Beverly Hills cop theme, quella che prende progressivamente forma è una vicenda strutturata sì sulle fondamenta musicali dei gruppi inglesi che spopolarono nel decennio thatcheriano, ma anche tempestata di contrasti. Che siano essi tra Irlanda e Inghilterra, tra Dublino e Londra, tra l’istruzione privata e quella del sistema statale e, appunto, tra un giovane che pensa di avere problemi e quelli decisamente più grandi della figura femminile di cui si innamora.

Un percorso di formazione in fotogrammi infarcito di forti elementi romantici e che, sulle note di I fought the law dei Clash, Gold degli Spandau ballet e Inbetween days dei Cure, inscena i pericoli e i sogni della vita di un teen-ager destinato ad intuire di dover andar fuori per crearsi la sua strada, soprattutto dopo aver compreso l’incapacità di risolvere i propri dilemmi di cuore e di crescita manifestata dal nucleo familiare in cui è nato.

Un percorso di formazione atto inoltre a testimoniare che in una band ci si coprono le spalle a vicenda, come quando si presta il servizio militare, ed a spingerci a chiederci in maniera esilarante se nessuna donna possa amare davvero un uomo che ascolta Phil Collins.

Tra citazioni verbali per Depeche mode, Joy Division e Ritorno al futuro, al servizio di una semplicemente gradevole operazione il cui non troppo incalzante ritmo narrativo viene compensato in maniera notevole dall’effetto nostalgia regalato da videocamere vhs, stratagemmi con aspirapolvere per ricreare lo stile canoro della sempreverde Video killed the radio star dei Buggles e, soprattutto, una sequenza di ballo proto-anni Cinquanta sulla evidente falsariga del fanta-capolavoro di Robert Zemeckis.