Shut In

Che Naomi Watts sia un brava interprete è fuor di dubbio. La bella britannica, naturalizzata australiana, oltre ad avere ricevuto due nomination agli Oscar per 21 Grammi (2004) e The Impossible (2013), nell’arco della sua carriera ha ampiamente dimostrato di essere un’attrice completa e versatile, e a tal proposito basti ricordare, tra le altre, le sue performance in: Mulholland Drive, il cult di David Lynch, The Ring, di Gore Verbinski, La Promessa dell’Assassino, di David Cronenberg. In Shut In di Farren Blackburn, regista televisivo alla sua prima prova per il grande schermo, la Watts non delude le aspettative... Peccato, però, che il suo ottimo lavoro sia l’unica nota positiva in un film decisamente poco riuscito.

Pieno di cliché, e con una costruzione dei personaggi per nulla approfondita, Shut In si presenta come un thriller a sfondo horror dove, in realtà, suspense e paura sono pari a zero. Gli escamotage utilizzati dal cineasta per provocare tensione e spavento risultano infatti generici, ripetitivi, superficiali e fin troppo scontati. Il film racconta la storia di una psicologa infantile, Mary Portman, che abita in una grande casa, immersa nei boschi del New England, insieme a Stephen, il figliastro ridotto in stato vegetativo in seguito a un incidente d’auto in cui il padre, marito di Mary, ha perso la vita. Quando uno dei giovani pazienti di Mary, un bimbo sordomuto di neppure dieci anni, sparirà all’improvviso, per lei sarà l’inizio di un incubo…

I punti deboli di quest’opera sono essenzialmente due, il primo dei quali è attribuibile ad una troppo fragile sceneggiatura scritta dall’esordiente Christina Hodson in sei settimane, e il secondo alla sua messa in scena. Sì, perché per creare terrore in sala non basta alzare di colpo il volume del suono o far spuntare una mano dal nulla, come non è necessario inserire scene identiche a quelle del mitico Shining di Stanley Kubrick, o realizzare un finale d’effetto alla Shyamalan, sempre poi che se ne abbia la capacità. No, per catturare l’attenzione degli spettatori verso un genere così inflazionato servono script innovativi e ottime tecniche registiche, caratteristiche queste che, spiace dirlo, nel lungometraggio di Blackburn non sono presenti. Durante i 90 minuti di proiezione, che a causa del lento ritmo rischiano di apparire più del doppio, ci si convince sempre più che Shut In non coinvolge e ancor meno avvince, e nonostante Naomi Watts s'impegni al meglio per risollevarne le sorti, il film sembra purtroppo destinato all’oblio.

In italiano “Shut in” significa ‘rinchiudere’: ecco, se sentite il bisogno di rinchiudervi dentro un cinema per godere appieno della suspense che la Settima arte sa regalare... non è questo il film che fa per voi.