Share, il controverso film di Pippa Bianco, dal Sundance alla Festa del Cinema di Roma
Share è una delle parole più usate in questo XXI secolo dominato, nel bene e nel male dalla tecnologia. Share, ovvero condividere; uno stato su Facebook o su Twitter, una canzone, un pensiero, un video. Soprattutto quest'ultimo è stato al centro di innumerevoli vicissitudini, più e meno felici, più e meno utili. C'è chi ha ripreso eventi atmosferici, chi si bea nel riguardare, condividendole con parenti e amici lontani, le buffe prodezze del proprio bambino. Chi, infine, utilizza un video, realizzato all'insaputa del/della protagonista, per condividerlo e ottenere i famigerati like.
Alla base del film di Pippa Bianco, c'è proprio uno di questi sciagurati esempi: dopo una serata passata a bere, Mandy si ubriaca e perde i sensi. Sdraiata bocconi sul pavimento di un bagno, la ragazza viene ripresa e derisa con parole pesanti da alcuni ragazzi, dopo che le sono stati abbassati i pantaloni, mostrando le natiche. Dopo essersi risvegliata sul prato davanti casa sua e una volta tornata lucida, riceve i messaggi allarmati dell'amica che ha visto un video, diventato virale, del quale lei è la sfortunata protagonista.
Mandy non ricorda nulla e, nonostante lo sconcerto iniziale, cerca il confronto con il ragazzo presente nel video che, in tutta risposta, parla di prese in giro innocenti a causa della buffa posizione in cui si trovava Amanda.
Ma quando i genitori trovano il video sul computer della ragazza, per lei inizia la seconda tranche di umiliazione: prova a ricordare l'accaduto tramite sedute di EMDR (un nuovo metodo di indagine della psicoterapia), sporge denuncia e il caso coinvolge tutta la scuola, tanto che la preside la invita a cambiare istituto.
Un turbine di disagio psicologico e sociale investe Mandy che si chiude in casa e smette di vedere le compagne di basket.
Tutte queste dinamiche sono al centro della storia narrata dalla regista nel suo lungometraggio, frutto non solo dell'estensione dell'omonimo corto premiato a Cannes, ma anche e soprattutto di una lunga ricerca e di innumerevoli colloqui con vittime e carnefici dello smartphone, diventato oggi più che mai un'arma a doppio taglio.
Quello che la regista ha scelto di mostrare è soprattutto il dolore della protagonista, sostenuta in tutto e per tutto dai genitori, nel corso della sua quasi ossessiva ricerca della verità: si è tenuta lontana dalla tematica del suicidio – molti, purtroppo, sono i ragazzi che hanno scelto di morire per la vergogna – e ha optato per un finale aperto, senza l'happy ending che per certe vicende risulta catartico e rasserenante.
Nel corso della sua indagine, sentiamo infatti Mandy confessare al padre: “ho bevuto perché mi andava di farlo e mi piace andare con i ragazzi”, come se si sentisse in colpa, se non fosse che approfittarsi della debolezza di una persona è sbagliato, sempre e comunque.