Sette minuti dopo la mezzanotte

Pare che la produzione di Sette minuti dopo la mezzanotte abbia avuto inizio quando lo sceneggiatore Sergio Sánchez ha consigliato la lettura dell’omonimo romanzo – tradotto in quasi quaranta lingue – al cineasta iberico J.A. Bayona, per il quale aveva curato gli script di The orphanage e The impossible. Romanzo scritto da Patrick Ness, ma iniziato dalla prematuramente scomparsa Siobhan Dowd, che riuscì a concepirne soltanto mille parole, ad impostarne la struttura e ad ideare alcuni personaggi; i quali, proprio come nelle due precedenti opere bayoniane, si trovano in una situazione particolarmente intensa, su cui incombe la morte. Senza contare il fatto che possiamo tranquillamente considerare in qualità di completamento della trilogia sul rapporto tra madri e figli questa sua terza fatica registica, oltretutto mirata ad esplorare il modo in cui la fantasia fa parte della natura umana e come le favole possano aiutarci ad affrontare la vita.

Perché, con le fattezze del Lewis McDougall visto in Pan – Viaggio sull’isola che non c’è, ne è protagonista il dodicenne Conor, che, costretto a vivere insieme alla fredda e distante nonna incarnata dalla veterana Sigourney Weaver a causa della malattia della mamma Felicity Jones, come il Bastian de La storia infinita non solo è vittima di bullismo a scuola, ma sfugge alla solitudine del suo mondo reale in maniera piuttosto fantasiosa. Infatti, invoca nei propri sogni una creatura alta dodici metri che, non distante nei connotati dal Barbalbero nato dalla penna di J.R.R. Tolkien, è stata ottenuta utilizzando e integrando tecniche di animazione in 2D e 3D, con il grandissimo Liam Neeson a prestarle la voce in performance capture.

Creatura che, un po’ come Il Grande Gigante Gentile portato sullo schermo da Steven Spielberg, si presenta alla finestra del piccolo e, ogni sera, sette minuti dopo la mezzanotte, gli racconta delle storie, alla maniera dello Zio Creepy di Creepshow. Storie rese in cartoon e che si rivelano frammenti di un viaggio emotivo alla ricerca della verità, in quanto la quasi ora e cinquanta in questione non rientra nel genere horror, ma si concretizza in un delicato apologo dal sapore dickensiano incentrato sull’elaborazione del dolore e la perdita dei propri cari. Apologo che, comprendente Geraldine Chaplin in un piccolo ruolo e non privo neppure di un omaggio al King Kong datato 1933, si evolve lentamente senza rinunciare alla spettacolarità, rappresentata in particolar modo da terre che si sgretolano ed edifici che crollano.

Man mano che, infarcita di lodevoli effetti visivi, la raffinata regia a cui ci ha ormai da tempo abituati il suo autore conduce verso il prevedibile ma, in ogni caso, commovente e poetico epilogo – grazie anche al fondamentale contributo delle musiche di Fernando Velázquez, dai vaghi echi elfmaniani – di una fanta-operazione al di sopra della media, seppur non eccelsa. Operazione che, oltretutto, non può fare a meno di richiamare alla memoria il cinema del messicano Guillermo del Toro e, soprattutto, il suo Il labirinto del fauno.

Non a caso, la qui produttrice Belén Atienza si occupò proprio della produzione esecutiva di quella cupa favola che si aggiudicò addirittura più di un premio Oscar.