Segreti di Famiglia

Molta carne al fuoco in questo secondo lungometraggio del regista norvegese Joachim Trier (senza il Van…).

La carriera di una fotoreporter, spesso in giro per il mondo (estremo)  ed il suo conciliare gli impegni (fisici e psicologici) di questa professione con la famiglia, gli affetti, la casa, il luogo da dove provieni e dove ritorni con la difficoltà, sempre più crescente, di riconquistare uno spazio tuo, una posizione stabile e riconosciuta in quel complicato e periglioso groviglio costituito dalle ragnatela di affetti che ricoprono l’alveo del bozzolo familiare. Sullo sfondo di questa lotta, sulla quale si innestano sensi di colpa e ambizioni, riverbera la sua presenza il manto della grande depressione che penetra tra le fessure di una vita, non chiuse da espedienti o palliativi, sempre meno efficaci e sempre più fuorvianti.

Questi gli argomenti che prendono spunto da una mostra che celebra la fotografa di guerra, beffardamente scomparsa in un incidente stradale, dopo essersi ritirata da un’attività ben più rischiosa di un giro in automobile. La mostra, è l’occasione per il marito e i due figli superstiti per rimettere in gioco, in un incontro scontro, dubbi e certezze su ciò che è realmente accaduto su quell’auto maledetta e soprattutto su quale fosse lo spessore – il colore, la sostanza - dei rapporti con la moglie/madre scomparsa.

Il tutto è raccontato scomponendo la narrazione in mille rivoli dove si alternano – senza ordine – realtà e sogno, passato e presente. Ed è in questi passaggi – confusionari e fuorvianti – che il film mostra i suoi limiti. Nei segnali accennati, nelle frasi non dette, nei visi non visti, dove si annida la soluzione, o dove si fa ritenere che lì si possa scovare la chiave di un film che invece rimane troppo avviluppato  su se stesso, quasi a rimarcare la situazione della protagonista (Isabelle Huppert, un ruolo scritto pensando al suo volto) che stretta tra dovere e passione, tra colpa e aspirazioni di libertà, sembra non trovare altra soluzione che non quella di interrompere quella ricerca di se stessi che ogni individuo conduce faticosamente nel corso della propria esistenza.

Accanto alla Huppert sfila un corteo di attori di primissimo livello. Gabriel Byrne nel ruolo del marito, vittima degli eventi pur in una lucida consapevolezza, Jesse Eisenberg, Amy Ryan e David Strathairn, collega grande conoscitore dell’opera delle fotoreporter.

Presentato a Cannes, ora nelle nostre sale, pur se con qualche pecca e compiacimento di scrittura, un prodotto autoriale di discreto livello.