Scappa: Get out
Nottetempo, su una strada deserta, si comincia da una sequenza niente male che suscita immediatamente curiosità nei confronti della vicenda che sta per inscenare Scappa: Get out, dopo i cui titoli di testa facciamo conoscenza di Chris Washington alias Daniel Kaluuya, ragazzo di colore fidanzato con la bianca Rose Armitage, ovvero Allison Williams. Una coppia che, una volta superato un incidente di percorso in automobile, troviamo immersa in una situazione chiaramente derivata dal super classico Indovina chi viene a cena? dal momento in cui lui viene invitato ad incontrare per la prima volta i genitori di lei nella loro lussuosa tenuta fuori città. Genitori dalle fattezze di Bradley Whitford e Catherine Keener e ai quali si affianca presto il figlio Jeremy interpretato dal Caleb Landry Jones di Stonewall; man mano che si parla di Barack Obama e dell’atleta Jesse Owens, ma anche che silenziosi domestici neri che si aggirano nell’abitazione contribuiscono ad alimentare un certo clima di mistero.
Perché, mentre il protagonista sospetta minuto dopo minuto di essere incappato in qualcosa di molto poco rassicurante, finendo anche per subire l’ipnosi, sono in maniera evidente argomentazioni politiche tipiche degli scontri tra diverse razze e classi sociali che hanno fatto la fortuna di molti lavori del cineasta newyorlese George A. Romero ad emergere nel corso della oltre ora e quaranta di visione. Anche se, in realtà, al di là della rivelazione conclusiva, più che dalle parti di un horror puro l’esordio dietro la macchina da presa per l’attore Jordan Peele – autore, inoltre, della sceneggiatura – si colloca nell’ambito del thriller ad ambientazione ristretta e quasi unica, come vuole la tradizione di buona parte dei lungometraggi prodotti, come questo, dalla Blumhouse Productions (sfornatrice di Unfriended e dei vari Paranormal activity, per intenderci).
Un thriller che non punta affatto sul sensazionalismo da effetto speciale e da creatura mostruosa pronta a balzare fuori da un momento all’altro, bensì su una lenta costruzione a base di tensione efficacemente generata fotogramma dopo fotogramma e al cui interno le pochissime concessioni all’ironia vengono poste al servizio dell’addetto alla sicurezza dei trasporti Rod, incarnato da LilRel Howery. Addetto alla sicurezza che, in contatto telefonico con Chris, finisce invischiato proprio nell’inquietante intrigo, le cui tematiche di fondo rispecchiano in maniera evidente quelle degli stessi elaborati risalenti agli Trenta e Quaranta – dai film di Victor Halperin all’”orrore suggerito” di Jacques Tourneur e Val Lewton – da cui, indubbiamente, aveva già attinto Iain Softley per mettere in piedi il suo The skeleton key.
E si giunge ai titoli di coda con la piacevole sensazione di aver appena assistito ad uno dei migliori prodotti di suspense da schermo d’inizio terzo millennio, tanto capace di catturare l’attenzione dello spettatore quanto intelligente nell’effettuare attraverso il genere una critica sociale rivolta ai conflitti umani dovuti spesso al colore della pelle... sebbene un epilogo maggiormente pessimista avrebbe giovato ancora di più al tutto.