Sami Blood: La discriminazione del popolo Sami vista dagli occhi di un'adolescente
Pochi conoscono il popolo Sami, una minoranza lappone che vive a contatto con la natura e alleva renne. Le uniche immagini che abbiamo sono dei piccoli quadretti mentali pittoreschi e un po' antiquati che, come spesso succede in questi casi, sono colmi di stereotipi razzisti. Ancora meno noto è che la popolazione Sami ha subito un autentico processo di discriminazione durante quello che può essere descritto come colonialismo svedese: molto spesso con i criteri della scientificità o dell'antropologia, le minoranze venivano rappresentate come intrinsecamente inferiori. Inutile dirlo, molto spesso la scienza era solo un'etichetta per conferire nobiltà alla peggiore pseudoscienza razzista, come l'individuazione di caratteri intrinseci di un popolo in base alla conformazione del cranio.
La regista Amanda Kernell per raccontare questa storia (che come tutte le storie di crudeltà corrono il rischio della rimozione), prende il punto di vista di Elle Marja, ormai anziana, che in un solo battito di ciglia ripercorre tutta la sua infanzia fatta di delusioni, violenze e mancato riconoscimento sociale e umano. In questo caso è molto importante il punto di vista di un solo personaggio, perché il processo di identificazione è più credibile: noi stessi come spettatori impariamo gradualmente tutto quello che impara Elle Marja, in un percorso emotivo molto doloroso. Il dolore nasce da un presupposto: per quanto la protagonista sia forte, resta sempre un pregiudizio che la singola non può abbattere, non da sola e non nel momento storico in cui sta vivendo (gli anni '30).
Visto il contenuto dichiaratamente politico del film, sarebbe stato molto facile (e altrettanto sbagliato) lasciarsi andare all'elegia o al compiacimento in tutte quelle situazioni che costituiscono una bruciante sconfitta per Elle Marje a prescindere dal suo coraggio. Amanda Kernell invece sceglie uno stile volutamente asciutto, in cui ogni situazione violenta viene rappresentata per ellissi. In altre parole viene evocata, viene mostrata da un'angolazione indiretta, e c'è sempre un pudore di fondo, come se nel mostrare un'alta volta un vissuto doloroso sullo schermo si corresse il rischio di rinnovare il trauma. Questa particolare delicatezza della regista aumenta la forza della sua denuncia. Il suo scopo non è quello di scioccare il pubblico, ma di lasciare che prenda la mano della protagonista e si faccia mostrare la sua storia mano mano che si dipana, chiedendogli la dolcezza di non guardare i momenti più intimi e più umilianti.
In questo la protagonista Lene Cecilia Sparrow è particolarmente efficace nel dare al suo personaggio le giuste sfumature senza abbandonarsi a virtuosismi non richiesti. Durante la premiazione a Strasburgo (il film ha ricevuto il premio Lux del Parlamento europeo), l'attrice infatti ha dichiarato “Noi sámi parliamo una lingua quasi estinta ma siamo ancora qui, allevatori di renne che hanno subìto espropriazione di terre, cambiamenti climatici e pregiudizi. Ricevere questo premio è quasi un risarcimento per le generazioni precedenti alla nostra che sono sempre state trattate come esseri inferiori. Lo dedichiamo a loro e speriamo che l'Europa si evolva e condanni il razzismo”