Roma: Alfonso Cuarón svolge il filo sublime di una poetica famigliare che trascende la tragedia con l’amore
Città del Messico, primi anni ’70. Cleo (una straordinaria Yalitza Aparicio) lavora come domestica al servizio di una famiglia alto borghese di Città del Messico composta da padre (medico), madre (biochimica) e quattro figli. Quella di Cleo è una vita fatta di accudimento e servizi per il prossimo: stirare, cucinare, rassettare, lavare il cortile e raccogliere gli escrementi dei cani, badare ai bambini, sono tutti i compiti che la giovane Cleo svolge con dedizione e sempre al meglio delle sue possibilità. Ma vive perlopiù in una dimensione chiusa del suo lavoro e di quella famiglia ‘adottiva’, e le manca la conoscenza vera del mondo, così che alla prima vera esperienza con la realtà circostante (ovvero un’infatuazione per un suo coetaneo) dovrà sperimentare per la prima volta il peggio di quel mondo sulla propria pelle. Eppure, in un momento per lei di profonda crisi di donna troverà, a sorpresa, la complicità della sua datrice di lavoro (la signora Sofia), lasciata dal marito e rimasta da sola ad accudire la famiglia.
Dopo i successi ottenuti con Gravity (ben 7 premi Oscar), Alfonso Cuarón presenta in Concorso al Festival di Venezia 2018 il suo ultimo lavoro dal titolo Roma (un riferimento a un quartiere della metropoli messicana), film prodotto e distribuito da Netflix, un’epopea famigliare ante litteram che contrappone e affianca le storie di due donne di età e ceti sociali diversi che si troveranno accomunate da una solitudine umana e da una simile condizione di vita in cui la de-responsabilizzazione maschile la fa da padrona.
Cuarón svolge il filo del racconto come fosse una splendida cartolina in movimento (bellissima la regia, e splendida la fotografia che cristallizza la poesia dell’opera in un sorprendente bianco e nero digitale), conferendo alla dolce Cleo tutte le qualità e i limiti di un’esistenza ingenua ma verace, remissiva e splendida. L’aderenza di questa giovane donna alla sua famiglia acquisita sembra vivere infatti di una sua estasi emotiva profonda, di un delicato processo di adesione a quell’idea di famiglia che include chi c’è, chi si prende cura, chi - nonostante tutto resta, al di là dei legami di sangue (una riflessione già, con altre dinamiche, affrontata dal film di Kore'eda Hirokazu Un affare di famiglia – Palma d’oro a Cannes 2018). Affettuosa con l’amica, con i figli non suoi ma di cui si prende cura spassionatamente, e perfino incapace di provare un vero odio nei confronti di chi l’odio glielo grida in pieno viso, la Cleo di Yalitza Aparicio è un’eroina contemporanea che (un po’ come accadeva con altri mezzi e altri intenti in Mà Rosa del filippino Brillante Mendoza) fa fronte alle sue tragedie con una dignità senza pari.
La tragedia che attraversa e che permea il film di Cuarón con degli elementi oculatamente centellinati all’interno delle due ore e passa di visione (presagi, terremoti, incendi, rivolte represse con la violenza, oceani iracondi) è dunque ‘sedata’ nella profondità di questa dimensione umana di amore e solidarietà tra donne, in una traccia narrativa che traendo anche spunto dall’autobiografico del regista si porta appresso una travolgente carica emotiva.
La straordinaria forza di Roma, però, risiede nel fatto che pur apparendo a prima vista come un’opera naturale, istintiva, è in realtà costruita con una lucidità e una precisione narrative sorprendenti. Il lento migrare della giovane protagonista verso una dimensione di consapevolezza del suo essere da sola e dover dunque badare a sé stessa combacia perfettamente con gli sviluppi di vita della sua controparte femminile ben più abbiente e socialmente solida, ovvero Sofia. E nel descrivere queste evoluzioni, in questo tendere delle due donne verso uno stato di cose che in parte appiattisce le diversità e accorcia le distanze sociali, Cuàron sfrutta il simbolismo lampante dell’auto; un’auto che prima è il macchinone lucido del capofamiglia la cui manovra di parcheggio (ripresa in ogni minimo dettaglio) richiede minuti di minuziose manovre, poi diventa il macchione per la prima volta in mano alla moglie che fatica a farci l’occhio e quindi continua a ‘incidentarla’, per poi mutare finalmente in un mezzo nuovo di una nuova vita dove ciò che è stato lascia il passo a ciò che sarà, una nuova condizione femminile di ritrovata indipendenza e consapevolezza.
Un film che, scansionato nel suo tempo del reale, scorre fluido lungo le oltre due ore tra momenti narrativi fiume e numerosi momenti simbolici e catartici. Non una virgola fuori posto e una bellissima protagonista sanciscono l’altissima qualità di un film suggestivo ed evocativo che ferma il tempo e fissa l’emozione come solo le grandi opere sanno fare.