Riparare i viventi
“Sotterriamo i morti per riparare i vivi”: Platanov, di Anton Checov. Ascoltare questa frase ai giorni nostri, soprattutto se pronunciata da un medico, porterebbe chiunque a interrogarsi su un argomento che mai nessuno vorrebbe dover affrontare nel corso della propria esistenza: quello dell’espianto di organi. Riparare i viventi, tratto dall’omonimo romanzo di Maylis de Kerangal, accompagna lo spettatore in un viaggio che, raccontando la morte, diventa un poetico, seppur straziante, inno alla vita.
Simon è un diciassettenne pieno di energia che ama andare in bicicletta e praticare il surfing con gli amici, ma il destino ha in serbo per lui una tragica sorte: la morte cerebrale a causa di un incidente d’auto. Claire, invece, è un’elegante signora di mezz’età affetta da un grave problema cardiaco, risolvibile solo con un trapianto...
Sarebbe stato semplice cedere alle lusinghe del melodramma o a quelle del sentimentalismo spicciolo, elementi che di norma catturano un gran numero di spettatori in sala, ma la talentuosa Katell Quillévéré non si lascia ingannare dal canto delle Sirene e realizza un’opera potente, profonda e priva di inutili infiocchettature. In 24 ore esatte - millequattrocentoquaranta minuti - genitori disperati dovranno decidere se consentire o meno, che cuore, fegato e reni del proprio figlio vadano a vivere in altri corpi. La dolorosa decisione è infine presa, ed è proprio in queste scene che, mantenendo un registro asciutto e mai lacrimevole, la cineasta dimostra come le emozioni possano essere trasmesse anche senza bisogno di eccedere. In quella terra di nessuno che è la vita sospesa – una vita in realtà già morta che però mantiene alcuni preziosissimi organi - si inserisce l'immane tema dei trapianti: un argomento che coinvolge scienza, etica, metafisica e religione, un dibattito tanto complesso quanto decisamente necessario.
Nel film, le immagini sempre in movimento fanno da perfetto contraltare al ritmo dilatato dei dialoghi, e la forza visiva di alcune sequenze conferma le grandi doti registiche già espresse da Katell Quillévéré in Suzanne, suo secondo lungometraggio. La proiezione ha inoltre il pregio di mettere il pubblico a contatto con il meccanismo della ‘macchina dei trapianti’, un settore dove la necessità di urgenza non preclude però l’humanitas dei suoi addetti, siano essi dottori, infermieri o comuni impiegati. Questa variegata umanità, legata a un’indispensabile efficienza, viene meravigliosamente rappresentata anche attraverso toccanti inquadrature in cui si assiste all’intera operazione di espianto e successivo ricollocamento del cuore: e quale forma di poesia può superare in purezza quella di un cuore che riprende a battere?
Emmanuelle Seigner, nel difficile ruolo della madre di Simon, buca il grande schermo con una delle sue migliori interpretazioni: l'attimo in cui la macchina da presa si focalizza sul suo sguardo mentre autorizza il medico a prelevare, dal corpo ancora caldo di suo figlio, tutto ciò che gli occorre, tranne gli occhi, sarà per gli spettatori un momento molto difficile da cancellare. Non da meno si rivela il resto del cast che, egregiamente guidato dalla regista francese, interpreta ogni personaggio in maniera del tutto impeccabile.
Quindi, un film da vedere. Perché? Perché donare la vita a qualcuno, quando questa - nostra o di persone care - è ormai giunta al di là del tunnel, è un atto d’amore infinito su cui tutti noi dovremmo impegnarci a riflettere.