Respect, l'omaggio del cinema alla regina del soul
“R-E-S-P-E-C-T find out what it means to me”: l'avete letta cantando, ammettetelo!
Ma quanti di voi sanno cosa c'è realmente dietro questa canzone e dietro a tanti altri brani di Aretha Franklin? Brani che nascondono significati profondi, sofferenza, amore, dolore, perdita.
Brani che, grazie a questi sottotesti carichi di pathos e grazie alla superba voce della cantante di Detroit, hanno fatto la storia della musica e sono ormai parte del repertorio musicale universale: pertanto, un film sulla intramontabile Aretha, a tre anni dalla sua morte, era decisamente atteso nonché doveroso.
La regista Liesl Tommy si è concentrata sul processo creativo di alcune di queste canzoni diventate l'emblema di un'epoca e sugli albori di Aretha Franklin, da giovanissima cantante gospel, a ragazza nera che approda nelle case discografiche di New York, senza tuttavia ottenere grandi successi, fino alla conscrazione come star internazionale nota e apprezzata in tutto il mondo.
Concentrato sul periodo che va dalla fine degli anni '50 alla decade degli anni '70, il film esamina la crescita personale e professionale della regina del soul, superbamente interpretata da Jennifer Hudson, scelta e incontrata personalmente dalla stessa Aretha circa quindici anni fa, quando il progetto di un film sulla sua vita e la sua carriera aveva fatto capolino negli studi di Hollywood. Un incontro che ha segnato la Hudson, da sempre grandissima ammiratrice di Aretha.
Con la lotta per i diritti civili a fare da sfondo, passando per gli abiti che, dai graziosi tailleur con cappellini abbinati, lasciarono il posto ad abiti a trapezio, a ricamatissimi abiti da sera adornati da folte pellicce, e poi a pantaloni a zampa di elefante arricchiti da accessori grandi e variopinti, ci viene restituito un ritratto estremamente intimo della cantante americana che, tra violenze subite quando non era neanche adolescente, matrimoni falliti e un rapporto controverso e altalenante con il padre e le sorelle, affrontò alti e bassi, sempre riuscendo a riprendere in mano la propria vita e la propria carriera.
Figlia di un predicatore molto in vista a Detroit, nonché amico fraterno di Martin Luther King, Aretha, chiamata Ree-Ree in famiglia, è cresciuta in una grande casa con lui, le sue sorelle e l'amata nonna paterna, esibendosi il sabato sera durante le cene organizzate dal padre.
La madre, grande assente della sua vita, separata da tempo, morì quando lei aveva solo dieci anni, segnando profondamente la figlia che rimase con l'ingombrante padre-padrone il quale la guidò perentoriamente durante la carriera iniziale, disponendo di lei come di una proprietà redditizia, senza mai tener conto dei suoi desideri e della sua reale inclinazione.
Il film di Liesl Tommy si concentra principalmente sull'inizio della carriera di Aretha Franklin e sul rapporto con l'unico genitore rimastole, tratteggiando un percorso che inizia e si chiude in chiesa: dalle esibizioni come cantante gospel durante le messe della domenica, fino alla registrazione dal vivo di Amazing Grace, album che ottenne un successo incredibile, la regista restituisce un ritratto vivo, autentico e toccante di una donna che divenne portavoce della lotta per i diritti civili e che, in quanto rappresentante del gentil sesso, raccontò le sue esperienze personali attraverso le sue canzoni.
Il periodo storico in cui è ambientata la vicenda e il colore della pelle della protagonista, rimandano, attraverso una scena in particolare, al meraviglioso Green Book, mentre la fortunata carriera di Aretha e il suo “avercela fatta”, non possono non portare alla mente la compianta Whitney Houston, di cui si diceva che Aretha Franklin fosse la madrina, voce poi smentita dalla stessa Aretha, comunque amica di lunga data della famiglia Houston. E Aretha ce l'ha fatta davvero: prima donna nera ad essere inserita nella Rock & roll Hall of Fame, 21 Grammy Awards ottenuti durante la sua carriera, Medaglia presidenziale della libertà conferitale da George W. Bush.
Ispirazione di tantissimi artisti tra cui lo stesso Freddy Mercury, Aretha ha fatto la storia e un film a lei dedicato era imprescindibile, senza ombra di dubbio.
Al fianco della stratosferica Jennifer Hudson – è un aggettivo assai ridondante ma la sua voce e la sua interpretazione lo meritano –, scelta come già detto anni e anni or sono per interpretare la celeberrima cantante di Detroit, l'immenso Forest Whitaker, Marlon Wayans, Tituss Burgess, Audra Mcdonald e anche la cantante Mary J. Blige, nel ruolo di Dinah Washington, amica di famiglia a cui Aretha dedicò un album di cover.
Ma proprio su Jennifer Hudson e sulla sua splendida interpretazione, sembra chiudersi il film che, a conti fatti, mette troppa carne al fuoco per soli venti anni di narrazione, facendo sì che le due ore e mezza risultino davvero troppo stiracchiate. Nonostante i drammatici fatti raccontati, il film sembra mancare in alcuni punti di quella verve e di quella vitalità che furono invece fra i tratti distintivi, nel bene e nel male, di Aretha. Tali episodi sono spesso accennati ma mai del tutto approfonditi: le gravidanze, il marito violento, gli attriti con le sorelle. Giusto il tempo di incuriosire i meno preparati sulla vita di Aretha, che si passa ad altro. Un vero peccato. Perché momenti come la nascita del brano Ain't no way, scritto dalla sorella Caroline per Aretha, sono davvero struggenti. Come struggente è la scena in cui Aretha canta durante il funerale di Martin Luther King, che da sola varrebbe il secondo Oscar alla Hudson.
Non c'è persona che non abbia sentito anche solo una volta Respect, Think (Freedom), I say a little prayer for you, (You make me feel like) A natural woman. Non c'è persona che non conosca la celebre Aretha Franklin, che con la sua voce stregò anche il presidente Obama, facendolo commuovere durante i Kennedy Center Honors, sulle note di (You make me feel like) a natural woman. Proprio questa esibizione, che appare sui titoli di coda in un filmato di repertorio, chiude il film di Liesl Tommy e regala, spiace dirlo, l'unico, vero momento da pelle d'oca. Tutto il resto è un buon biopic ma Jennifer Hudson a parte, il senso di incompletezza permane.