Rara
Ancor prima rispetto ai titoli di testa, la macchina da presa traccia un lungo pianosequenza seguendo una giovanissima donna che cammina, di spalle, e che scopriamo immediatamente chiamarsi Sara e possedere le fattezze della Julia Lübbert vista nella serie televisiva Y tu qué harías. La Sara che, insieme alla sua migliore amica, canticchia e parla di feste da organizzare, baci alla francese ed omosessualità femminile, in quanto vive la sua felice e spensierata quotidianità non solo accanto alla sorellina Catalina alias Emilia Ossandon, ma anche alla madre Paula e alla moglie di lei Lia, rispettivamente interpretate da Mariana Loyola e da Agustina Muñoz. Ma anche la Sara che vediamo alle prese sia con l’adolescenza e con le inevitabili problematiche legate ai primi confronti dell’altro sesso, sia con la sua situazione familiare destinata a complicarsi man mano che il padre tenta in ogni modo di ottenere la custodia delle due figlie.
Perché, come spiega la cineasta cilena – qui debuttante nel lungometraggio – Pepa San Martín: “Questo film è basato su casi di discriminazione e pregiudizio che sono realmente accaduti. È una storia vera che ruota intorno a tribunali e dichiarazioni, una storia fredda e aliena. Eppure Rara vuole essere un film sull’amore, sull’innocenza, sulle perdite e su come superarle senza smarrire la propria identità”.
Un film che, sceneggiato insieme alla Alicia Scherson regista de Il futuro, deriva dalla necessità di raccontare con tono intimo storie incentrate sui personaggi e sulle persone da essi coinvolti, senza rivendicazioni, slogan e politica.
Un film che, forte delle lodevoli prove sfoggiate dal cast, si concentra soprattutto sul rapporto che la protagonista porta avanti con la genitrice e la sua compagna, lasciando spesso (e inaspettatamente) emergere nel corso dei suoi ottantacinque minuti totali, però, un respiro molto più vicino a quello di una gradevole commedia per ragazzi che agli stilemi tipici del dramma indirizzato al pubblico adulto.
Spingendoci tranquillamente a pensare che, con un epilogo che non può fare a meno di dividere le opinioni a causa delle diverse correnti di pensiero riguardanti il binomio gay-figli, sia proprio questa sua grande capacità di immergere con delicatezza lo spettatore in una tematica attualissima quanto scottante ad avergli consentito di aggiudicarsi diversi riconoscimenti in giro per il mondo… tra cui il premio riservato al miglior film nella sezione Generation Kplus International Jury presso la sessantaseiesima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino.