Race: Il colore della vittoria

Race (da noi con una sapida aggiunta: Il colore della vittoria) è ovviamente un biopic su Jesse Owens, ma leggermente anomalo, perché si focalizza soprattutto sull’impresa per cui è noto ai più, le 4 medaglie d’oro ai Giochi di Berlino del 1936 e le implicazioni di quest’impresa.
Di fatto quindi a volte Owens passa in secondo piano a favore dell’impresa, totalmente a Stelle e Strisce, di aver imposto a Hitler un nero sul podio dello stadio di Berlino. 
Come di consueto gli americani amano romanzare le loro storie ed abbracciano la leggenda secondo cui Hitler avrebbe rifiutato il saluto a Owens. 
In realtà il Fuhrer non ricevette mai nessuno dei vincitori e anzi salutò l’atleta nero dalla tribuna d’onore. 
Peraltro è bene anche ricordare come la Germania nazista alla fine dei giochi fosse la prima nel medagliere con i suoi 33 ori (contro i 24 dell’America), il –contrariamente a quanto si potrebbe pensare- rese quell’evento un’ottima forma di propaganda per Goebbels.

Cenni storici a parte, ma essenziali per capire il contesto del film, il fulcro dell’opera di Stephen Hawkins è ovviamente il suo protagonista, Jesse Owens, e il rapporto che lo lega al suo allenatore, il bianco Larry Snyder. 
Soprattutto il conflitto interiore in cui si dovrà dibattere il velocista stretto alle corde dalla comunità nera che lo vorrebbe “disertore dei giochi”. 
Ovviamente sappiamo bene come finirà, e mai scelta fu più saggia, perché quale risposta migliore al razzismo e all’antisemitismo, se non un nero sul podio più alto.

La sorpresa più grande resta comunque Jason Sudeikis (un po’ clone di Dennis Quaid, invero) che finalmente dimostra di poter essere molto di più di un “attore macchietta”, regalandoci un bel ruolo a tutto tondo che potrebbe essere il passaporto per qualcosa di più.

Stephan James, quello con le spalle larghe, deve caricarsi il vero peso del tutto: essere un Owens credibile. Fortunatamente è un eroe di altri tempi di cui non abbiamo una chiara iconografia comune (non è Carl Lewis per intenderci), e questo gli consente un approccio decisamente più tranquillo.

Non è certo Hopkins, il regista, quello che può portare l’opera su un altro piano, già travolto dalle necessità di restituirci degli anni 30 credibili e soprattutto la maestosità della Berlino monumentale del Terzo Reich, diciamo che sul protagonista si affida più ai primi piani e alla velocità.

Sul fronte delle scenografie, invece, è la computer graphic (non eccelsa c’è da dire) a venire incontro al regista. 
Il monumentale stadio (110.000 posti per l’epoca era quasi fantascienza) e il villaggio olimpico (il primo ristrutturato nel 2000 e il secondo ormai una rovina fatiscente) vengono riproposti in tutta la loro possanza. 
Non dimentichiamo che i Giochi erano il biglietto da visita di Hitler per la sua propaganda e Goebbels era il suo “braccio armato” insieme alla cineasta Leni Riefenstahl che grazie a Olympia vinse anche la Coppa Mussolini a Venezia (non senza qualche pressione del regime). 
Proprio questo aspetto, e la diversa visione della regista tedesca e del Ministro della Propaganda, vengono ampiamente mostrati in Race, che anche per questo non è solo la storia di Jesse Owens.

Alla fine forse un po’ troppa carne al fuoco, ma comunque un film che scorre a dispetto delle due ore.