Rabbia Furiosa - Er Canaro: La rabbia dei mansueti
È davvero curioso che a distanza di trent’anni da un caso di cronaca nera particolarmente efferato, due registi molto diversi traggano spunto da quel contesto sociale e da quello specifico episodio per realizzare due film molto diversi. Mentre nella pellicola di Garrone si può parlare effettivamente di uno spunto iniziale, perché la trama prende una direzione completamente diversa, nel lavoro di Stivaletti invece si può rilevare una sostanziale fedeltà ai fatti del 1988.
Viene da chiedersi quale sia la molla alla base di questa curiosità narrativa, e nel caso di Stivaletti sembra la necessità di studiare la rabbia dei mansueti, lo scoppio di chi per indole è portato a sopportare fino al limite estremo, quello oltre il quale cadono tutte le regole.
Quello che colpisce di questo thriller noir di Stivaletti è la grande cura a livello tecnico, l’attenzione nello studio dell’inquadratura, nella gestione delle luci e nel ritmo del montaggio. Stivaletti riempie con questa sua opera un vuoto, che è quello del film di genere italiano. Il quartiere romano del Mandrione, già soggetto di Pasolini nel suo degrado meraviglioso e ribelle, qui diventa lo sfondo scenico di un western moderno e disperato, in cui non ci sono innocenti, ma solo pescecani affamati. Tutta la messa in scena converge in questa direzione, dalla direzione degli attori, improntata a un realismo senza eccessi, a uno studio dell’immagine che vuole riprodurre il senso di soffocamento tipico delle lente estati romane. Ancora più prepotente è lo sfondo sociale dei personaggi, minuti antieroi che mirano a governare un quartiere, più che per denaro, per diventare i sovrani di una piccola baraccopoli popolare. Più dei soldi, valgono il rispetto, e quella forma primordiale di onore che è data solo dalla paura.
E poiché non c’è paura senza efferatezza, prima o poi entra in gioco la maestria primaria di Stivaletti, indiscusso specialista degli effetti visivi. Le torture del cosiddetto “canaro” sono messe in scena in maniera implacabile, sconvolgente, in un modo che non concede sconti allo spettatore, fino rendere la visione spesso intollerabile. Resta alla sensibilità individuale decidere se questo sia apprezzabile o no, ma dal punto di vista tecnico la messa in scena è impeccabile, se si pensa a una vittoria netta dell’artigianato sulla dittatura del digitale.
Non resta che augurarsi che queste capacità tecniche e artistiche siano messe in campo, in futuro, per raccontare altre storie, non meno realistiche, ma forse meno legate a casi di cronaca, per sua natura sempre a rischio di risvegliare antiche ferite mai del tutto rimarginate.