Porto

Jake (Anton Yelchin) e Mati (Lucie Lucas), ventiseienne americano lui, trentaduenne francese lei, si incontrano a Porto, dove entrambi vivono, e trascorrono una notte insieme. È l’incantesimo di un attimo particolare, intenso, e irripetibile, che sancirà la dimensione amorosa di un incontro che entrambi ricorderanno e si porteranno, con nostalgia e felicità, nel cuore e nella mente per il resto dei loro giorni.

Alla sua opera prima il documentarista brasiliano Gabe Klinger (Vincitore nel 2013 del Venezia Classici Award per Double Play: James Benning and Richard Linklater) ricostruisce la dimensione unica di un incontro amoroso attraverso la struttura ultimamente molto in voga del punto di vista plurimo, sdoppiato nella percezione dei ricordi di lei (Mati), di lui (Jake), e poi accomunato dai punti in comune del ricordo a due (Jake e Mati). Poco più di un incontro e di una breve storia d’amore, dunque, ma segnati da una grana e una profondità emotiva che riescono ad andare oltre, e a scavare in qualche modo nella bellezza (estetica ed endemica – soprattutto di lei) e nell’interiorità (soprattutto di lui - introversione esasperata e a tratti quasi dolorosa) dei due protagonisti. Bellissima e armonica anche negli scivoloni meno razionali la Mati di Luice Lucas, doloroso ed enigmatico lo Jake di Anton Yelchin (qui alla sua ultima interpretazione prima della drammatica e prematura scomparsa), i due protagonisti di Porto con il loro ‘momento insieme’ intercettano un punto zero dove riuscire a essere loro stessi, a proprio agio anche in una realtà circostante apparentemente opaca e ‘aliena’.

I due amanti e i loro due punti di vista sono dunque prima decostruiti e poi convogliati in un capitolo finale dove i ricordi si sommano per ricomporre nel dettaglio alchimie fisiche e mentali di quella notte incantata, sorretta da un’atmosfera che sembra essere in emersione dal profondo della nostalgia urbana di Porto. Città che diventa in qualche modo anima e orchestra della storia in un’opera che racconta sostanzialmente due ‘stranieri’ in un luogo e un momento capaci di fare la differenza, riportare alla realtà della propria percezione, così come alla vitalità piena della propria esistenza.

Riflessione sentita su ciò che si perde e ciò che si trova inaspettatamente lungo la ‘via’, e che nella sua summa costituisce la vita, l’opera prima di Klinger (prodotta da Jim Jarmusch) colma l’imperfezione narrativa con la pienezza del sentimento, sgranando ogni attimo vissuto e riproposto in un’istantanea profonda e sincera. La fotografia plumbea e offuscata dei ricordi si alterna ai contorni ben più a fuoco del tempo presente, lasciando la scia di una nostalgia d’amore estemporaneo, a metà tra le atmosfere evocative della Nouvelle Vague e il Linklater degli incontri ‘fatali’.

Un film perfettibile ma profondamente sincero, che doppia il suo ‘dolore’ proprio attraverso il volto di Yelchin, protagonista perfetto per il ruolo e che qui sembra con il suo Jake introiettare un dolore puro, innocente, magnifico, e drammaticamente assoluto.