Point break

In sella ad una motocicletta da cross, si parte con una serrata corsa che prende il via dalla cima di una collina; prima di passare a sette anni dopo per trovare il giovane agente dell’FBI Johnny Utah alias Luke Bracey che, alle prese con i demoni del passato e alla ricerca del suo posto nel mondo, s’infiltra in un gruppo itinerante di atleti amanti del brivido sospettati di crimini perpetrati in maniera estremamente inusuale.

Atleti capeggiati dal carismatico Bodhi incarnato da Édgar”Joy”Ramírez, il quale prende il posto del Patrick Swayze che gli concesse anima e corpo in Point break – Punto di rottura (1991) di Kathryn Bigelow, che coinvolse in qualità di produttore esecutivo addirittura un James Cameron pre-Titanic (1997) e di cui, ovviamente, il secondo lungometraggio cinematografico a firma del direttore della fotografia Ericson Core – già autore di Imbattibile (2006) – è un rifacimento.

Rifacimento che, sostituito il futuro Neo matrixiano Keanu Reeves con il succitato protagonista, non si limita, però, a tirare in ballo il surf e i lanci con il paracadute e, anziché tentare di replicare lo status di cult della pellicola da cui prende le mosse, punta in maniera evidente all’aumento della spettacolarità finalizzata a conquistare il cuore degli amanti degli sport estremi.

Infatti, pur non risultando affatto assenti tanto imponenti quanto temibili onde, la oltre ora e quaranta di visione spazia dal monte Jungfrau nelle Alpi alle Angel Falls venezuelane, ovvero le cascate più alte del mondo, introducendo l’immaginario elemento delle Otto prove di Ozaki per poter catapultare la macchina da presa, tra l’altro, nello wingsuit flying, nello snowboarding e nell’arrampicata libera.

Senza dimenticare scontri corpo a corpo nelle banlieue parigine, autoveicoli distrutti tra le montagne rocciose, una sparatoria con i carabinieri in terra italiana e, addirittura, un momento di tensione a bordo di una funivia... al servizio di un non particolarmente memorabile ma neppure disprezzabile action movie che, rispecchiando in buona parte i non incalzanti ritmi narrativi del capostipite, di cui non replica i risvolti conclusivi, mira anche a ribadire che siamo responsabili solo per le nostre scelte.