Piccoli brividi
Con le fattezze di Jack Black, lo scrittore R.L. Stine si irrita quando gli dicono che sembra la brutta copia di Stephen King e, nel momento in cui si trova ad avere a che fare con dispettosi gnomi, da un lato può richiamare alla memoria l’Ash de L’armata delle tenebre (1992), dall’altro ricorda il Gulliver partorito dalla penna di Jonathan Swift sotto pseudonimo Dr. Lemuel Gulliver.
D’altra parte, non solo il difficilmente disprezzabile protagonista di School of rock (2003) è stato anche interprete de I fantastici viaggi di Gulliver (2010), ma è lo stesso Rob Letterman lì regista a dirigerlo in questa prima trasposizione per il grande schermo della serie letteraria stiniana Goosebumps, che, tradotta in trentadue lingue e conosciuta nello stivale tricolore come Piccoli brividi, ha fatto vendere più di quattrocento milioni di volumi alla casa editrice Scholastic.
Trasposizione in tre dimensioni che parte dal giovane Zach Cooper, ovvero Dylan”Prisoners”Minnette, il quale, appena trasferitosi da New York in una piccola cittadina di provincia, prima fa conoscenza con la bella vicina di casa Hannah alias Odeya Rush, figlia proprio del romanziere, poi avverte che nell’abitazione della ragazza accadono fatti strani; fino a scoprire che le creature che hanno reso celebre il padre sono effettivamente reali e intrappolate negli scritti per proteggere i lettori.
Creature che, dal pupazzo venriloquo Slappy all’uomo lupo, non esitano, ovviamente, ad essere liberate per sbaglio per poi scorrazzare pericolosamente nelle strade, generando una turbolenta situazione proto-Jumanji (1995) che costringe il ristretto manipolo di coraggiosi – comprendente anche l’imbranato Champ incarnato da Ryan”Super 8”Lee – a combattere al fine di salvare l’umanità.
E, complice un evidente omaggio al cult dei monster movie La mantide omicida (1957) di Nathan Juran, in mezzo ad alieni, robottini e minacciosi clown se non risulta affatto assente un certo retrogusto da film di fanta-intrattenimento a stelle e strisce risalente agli anni Cinquanta dovuto, probabilmente, al fatto che il soggetto sia firmato dagli stessi Scott Alexander e Larry Karaszewski che sceneggiarono Ed Wood (1994) di Tim Burton.
Anche perché, man mano che il 3D risulta piuttosto irrilevante e che è possibile intuire l’allegoria relativa ai sacrifici da affrontare per favorire la crescita, tra la presenza di una mummia, di un ragazzo invisibile e di immancabili zombi appaiono tutt’altro che assenti similitudini con titoli quali Scuola di mostri (1987) di Fred Dekker e il televisivo La notte di Halloween (1985) di Jack Bender.
Titoli che nel decennio reaganiano si rifecero, appunto, a quella simpatica cinematografia di trent’anni prima... come pure il Joe Dante che si prova quasi l’impressione di vedere dietro la macchina da presa di questa movimentata e divertente avventura horror, tanto adolescenziale fascinosamente nostalgica.