Pet Sematary, il genio di Stephen King torna al cinema
Che siate lettori appassionati del re del brivido o fifoni dediti alla narrativa leggera, la storia che Stephen King raccontò nel suo Pet Sematary, nel 1983, la conoscete più o meno tutti.
Narra di una famiglia che, per sfuggire alla frenetica vita di città, si rifugia in una tranquilla cittadina di provincia, acquistando una grande casa circondata da diversi ettari di bosco. Al suo interno si trova un piccolo cimitero degli animali in cui cani, gatti, canarini e altri animali da compagnia, sono stati seppelliti negli anni dai proprietari ma accanto ad esso, un'alta catasta di alberi morti, chiude il passaggio verso un luogo antico e oscuro.
Un luogo che si nutre del dolore di chi ha perso una persona cara: il luogo in cui un padre affranto potrebbe decidere di portare il proprio figlio, tragicamente morto in un incidente, per vederlo tornare e poter passare più tempo con lui.
Ma chi torna da lì, non è mai lo stesso.
La famiglia Creed è composta da papà Louis, medico, mamma Rachel, vittima di un tragico passato in cui vide sua sorella Zelda, affetta da una grave malattia, morire davanti ai suoi occhi, Ellie che sta per compiere 9 anni e il piccolo Gage. E per finire c'è anche Church - diminutivo di Winston Churchill -, il gatto di casa, amato e coccolato da tutti. A dar loro il benvenuto ci pensa l'anziano vicino Jud che, fin dalla prima apparizione, intuiamo conoscere bene il bosco e i suoi segreti.
Il fulcro della vicenda, nel nuovo film di Kevin Kölsch e Dennis Widmyer, è rimasto sostanzialmente inalterato ma il confronto con il primo Pet Sematary – Cimitero vivente, del 1989, tratto anch'esso dall'omonimo romanzo di King, è inevitabile.
Se il primo film rimaneva più fedele al libro, il remake apporta una serie di cambiamenti, sebbene non strutturali. Nella prima versione, infatti, la regista aveva tentato di ricreare pedissequamente quanto narrato dall'autore; nella nuova invece, la confezione prende il sopravvento, regalando un ottimo prodotto che tuttavia, pur mostrandolo attraverso alcune inquadrature in primo piano, non analizza approfonditamente il dolore che attanaglia le viscere dei protagonisti alle prese, tutti, nessuno escluso, con il proprio passato ed i propri sconvolgimenti interiori. Del resto, il lavoro di adattamento è una pratica talmente complessa che alcuni aspetti, inevitabilmente, vengono tralasciati.
Detto ciò, chi scrive ha guardato nello stesso giorno entrambi i film e, a dirla tutta, quello del 1989 è risultato obsoleto e soprattutto mal recitato, dal protagonista in primis, l'allora giovane Dale Midkiff, davvero fiacco e poco espressivo. A suo tempo il film di Mary Lambert suscitò la giusta dose di paura ma ora, con le più moderne tecnologie e i più stupefacenti effetti speciali a farla da padroni, osservare gli occhi gialli del gatto, che ricordano certe foto fatte con il flash e venute male, o i lampi di luce azzurra che indicano il sentiero nel bosco, ha un effetto decisamente poco angosciante. In sostanza, a vedere il vecchio film a casa da soli, non si muore certo di paura.
Al contrario, l'impianto scenografico dell'opera di Kölsch e Widmyer, è davvero suggestivo: dalla nebbia fitta che avvolge il bosco, alla palude spettrale, fino alla processione con i bambini mascherati, l'angoscia permea tutta la narrazione. I movimenti di macchina volutamente rallentati, conducono lo spettatore verso un colpo di scena, un'apparizione improvvisa, una scoperta agghiacciante, tenendolo col fiato sospeso. Le sequenze oniriche rispettano i canoni del genere e la figura di Viktor, il giovane che muore in un incidente stradale e che apparirà a tutti i componenti della famiglia Creed invitandoli a stare lontano dal “terreno inquinato”, non è più un biondo sorridente, decisamente poco spaventoso, ma un ragazzo di colore che, con il suo sguardo atterrito e le sue fugaci apparizioni, risulta assai più terrificante.
Molti nostalgici forse rimarranno ancorati al vecchio lavoro degli anni '80, decade che vide l'uscita di diversi film tratti dalle opere di Stephen King, ma è innegabile che, con i pochi mezzi allora a disposizione, i trent'anni di distanza pesano eccome.
Lo stesso cast dell'odierno film funziona nettamente meglio, sebbene Fred Gwynn e Denise Crosby fossero perfetti per i rispettivi personaggi di Jud e Rachel: il ruolo da protagonista è stato ora affidato a Jason Clarke, già visto nel recente First Man, sua moglie è interpretata da Amy Seimetz, volto abbastanza giovane del cinema e delle serie tv, che conferisce la giusta dose di angoscia alla madre traumatizzata dalla morte della sorella e alle prese con i fantasmi del passato e del presente. John Litgow, infine, veste i panni del vicino Jud, e regge bene il confronto con il suo valido predecessore.
Una ristretta cerchia di personaggi, la location horror per antonomasia (la casa nel bosco), le stanze in penombra con le luci che sfarfallano, il dolore per la perdita di una persona amata che spinge verso mondi inesplorati e pericolosi. Gli ingredienti che rendono Pet Sematary angosciante e perturbante e che ne fanno un validissimo esponente del genere, ci sono tutti. Non manca inoltre qualche rimando al film che più di ogni altro ha reso omaggio al genio di King, pur non essendo stato approvato dallo stesso autore: Shining. Dal quadro con le due sorelle, che ricordano le gemelle uccise dal custode, fino al sangue che esce dal portavivande, come usciva dall'ascensore dell'Overlook Hotel, e al piccolo Gage che urla il nome del ragazzo morto come il piccolo Danny urlava Redrum, l'atmosfera tesa e soprannaturale pervade ogni sguardo, ogni inquadratura, ogni movimento sulla scena.
Stilisticamente ineccepibile, narrativamente coinvolgente, inquietante al punto giusto.
Pet Sematary, uno dei più famosi e intramontabili romanzi di Stephen King, si riveste di una nuova aura e tiene col fiato sospeso fino al colpo di scena finale.