Per mio figlio
Perso drammaticamente il figlio adolescente in un incidente stradale e determinata a scovare chi era alla guida dell'auto che dopo aver investito il ragazzo non si è nemmeno fermata a soccorrerlo, Diane Kramer deciderà di inseguire una pista di 'giustizia' privata, mettendosi sulle tracce dei suoi 'sospetti', presto individuati grazie a una Mercedes d'epoca e di color caffè (Moka, titolo originale del film) che il conducente guidava al momento dell'impatto. Entrata dunque a contatto con i presunti colpevoli della morte del figlio, la donna proverà a confermare i suoi sospetti e a percorrere, così facendo, un po' quel senso di vendetta che - in ogni caso - non potrà mai ridarle indietro il figlio tanto amato. Un ‘cammino’ dunque imprevedibile che non darà forse i frutti sperati ma che contribuirà senz’altro al percorso di elaborazione necessario e che ognuno di noi, messo di fronte a una perdita così grande e incolmabile, è chiamato ad affrontare con i 'propri' mezzi.
Coproduzione franco-svizzera, l'opera seconda di Frédéric Mermoud presentata allo scorso festival di Locarno, è il viaggio-incontro di una madre alla ricerca del figlio perduto, e di conseguenza alla ricerca di sé stessa. Impostato come un thriller che segue e si costruisce attorno alla ricerca del presunto colpevole da 'giustiziare', Per mio figlio (ispirato al romanzo di Tatiana De Rosnay) mischia il thriller al racconto esistenzialista, in un gioco di incontri e scontri umani che ruotano soprattutto attorno alla figura di Diane (Emmanuelle Devos) e a quella della sua nemesi, o coprotagonista femminile Marlène (Nathalie Baye).
La disperazione, la voglia di vendetta, la necessità di vedere e conoscere il colpevole per sondarne la ‘criminalità’ o semplicemente le peculiarità, rappresentano un gioco dal duplice effetto in cui vittima e carnefice dimostreranno di avere molte più cose in comune del previsto e dove bene e male non rappresentano necessariamente due entità ben distinte e definite. Due donne a confronto nel rapporto con loro stesse, con i loro rispettivi mariti e figli, sono il nastro rosa lungo cui si svolge questo lungo pedinamento, che si affianca poi alla ricerca di qualcosa che va forse ben oltre le apparenze, e sfugge di peso alla razionalità delle cose. Da una macchina color Moka e dal cartello ‘vendesi’ apposto su di essa, si dipanano infatti segreti e idiosincrasie di tutti i protagonisti (nessuno escluso).
Forse troppi personaggi, troppe linee narrative secondarie e la scelta di un registro che si muove tra thriller e dramma senza decidere fino in fondo quale dei due mettere a fuoco, fanno del soggetto (pur interessante) di Per mio figlio, un film poco coinvolgente e – di fatto - poco riuscito. L’attrice Emmanuelle Devos s’immerge espressivamente nel dolore e nel senso di smarrimento accordato a questa madre lacerata dalla perdita, e forse la sua forte presenza scenica è ciò che meglio restituisce il senso di questo intenso dramma materno. D’altro canto, però, sono tutte le derive e i risvolti più irrazionali della vicenda a creare una sorta di sospensione del vero che allenta l’emozione e annacqua per certi versi anche i momenti migliori di questo dramma al femminile.