Pelé
Tutto ha avuto inizio quando, nel 2012, Brian Grazer dell’Image Entertainment – produttore, tra l’altro, di A beautiful mind e Rush di Ron Howard – è stato contattato dal più grande calciatore della storia del pallone per far sì che raccontasse su grande schermo la sua vita.
Da lì, non solo in fase finanziaria è stato tirato in ballo il peruviano Ivan Orlic che aveva prodotto Il mistero del gatto trafitto di Gillian Greene, ma sono stati posti al timone di regia i documentaristi Jeff e Michael Zimbalist che, già durante i titoli di testa, provvedono a lasciar emergere dettagli relativi all’infanzia di colui che – presente anche in una fugace apparizione – è conosciuto all’anagrafe come Edson Arantes do Nascimento.
Colui che, soprannominato Dico dai genitori e divenuto sia l’unico giocatore al mondo ad essersi aggiudicato tre trofei Jules Rimet che il più giovane (a soli diciassette anni) ad aver vinto una World Cup, vediamo crescere nel povero villaggio brasiliano di Bauru con le fattezze dell’esordiente Leonardo Lima Carvalho, ricordando in parte il piccolo Ray Charles di Ray, in parte il Jamal di The millionaire.
Fino al momento in cui, dopo la devastante sconfitta della nazionale inglese nel mondiale del 1950, promette al padre – il quale non manca di allenarlo utilizzando un mango – che un giorno porterà la squadra alla vittoria; man mano che si dedica anche al furto di noccioline da rivendere affiancato dai suoi amici al fine ottenere il denaro necessario all’acquisto di scarpini per poter partecipare a un torneo giovanile di calcio.
E, prima ancora che lo troviamo, adolescente, manifestante i connotati di Kevin de Paula, anch’egli debuttante nell’universo della Settima arte, fa la sua entrata in scena il Diego Boneta della serie televisiva 90210 nei panni del benestante José Altafini; che non solo si fa chiamare Mazzola per la somiglianza con l’omonimo attaccante e centrocampista del Grande Torino, ma pare sia il primo a denominarlo Pelé, a causa del nome di un famoso portiere pronunciato male dal ragazzino.
Nel corso di oltre un’ora e quaranta di visione che, con i veterani Vincent D’Onofrio e Colm Meaney coinvolti rispettivamente nei ruoli dell’allenatore del Brasile Feola e in quello della Svezia George Raynor, intende apparire sì in qualità di lettera d’amore al leggendario campione, ma anche al suo paese natale ed alla cultura legata ad esso.
Con il magico stile di gioco Ginga – incarnante, appunto, la gioia e lo spirito del popolo brasiliano – destinato ad emergere fotogramma dopo fotogramma, ma anche la forte impressione di trovarci dinanzi ad un biopic sportivo rientrante nella media e privo di particolari guizzi che, racchiudente il suo maggiore pregio nelle prove sfoggiate dai componenti del cast e sicuramente capace di appassionare il pubblico dei tifosi irriducibili, non risulta esente da occasionali momenti di fiacchezza.
Che ciò sia riconducibile alla provenienza dai documentari dei due autori, i quali, probabilmente nell’intento di far toccare una dimensione maggiormente cinematografica al tutto, ricorrono anche a momenti da bullet time proto-Matrix decisamente fuori luogo?