Paradise beach – Dentro l’incubo
I primissimi minuti di visione incutono quasi il timore che il settimo lungometraggio diretto da Jaume Collet-Serra rientri nell’ormai abusatissimo filone dei lungometraggi girati in pov sulla scia di The Blair witch project – Il mistero della strega di Blair (1999), complice anche l’abbondanza di riprese eseguite a mano che ne caratterizzano i fotogrammi immediatamente successivi.
Fortunatamente, però, con un’idea di partenza non molto distante, in un certo senso, da quella del Blood surf (2000) di James D.R. Hickox che vide al proprio centro un gruppo di surfisti impegnati a sfuggire ad un gigantesco coccodrillo, l’autore de La maschera di cera (2005) e Orphan (2009) si allontana presto dalle inquadrature in movimento da effetto mal di mare e dal look di falso documento audiovisivo ritrovato.
E lo fa concentrandosi sugli splendidi paesaggi naturali offerti dalla spiaggia isolata dove, in cerca di serenità dopo la morte della madre, si apparta per cavalcare la propria tavola sulle onde la studentessa di medicina Nancy, cui concede anima e corpo la Blake Lively di Adaline – L’eterna giovinezza (2015); senza immaginare, però, di trovarsi ad avere a che fare con un pericolosissimo nemico appartenente all’universo animale.
Perché, rimasta bloccata nel mezzo della tanto affascinante quanto inquietante distesa d’acqua un po’ come accadde ai protagonisti di Open water (2003) di Chris Kentis, non tarda a finire assediata da un gigantesco squalo bianco splendidamente concepito in digitale.
Squalo bianco che fa la sua entrata in scena, però, soltanto una volta che il bravo cineasta di origini spagnole ha provveduto a generare la giusta attesa intrisa di tensione, trasformando progressivamente il tutto in un vero e proprio scontro da grande schermo tra uomo e natura.
Scontro che concede anche spazio alla semina di cadaveri – con tanto di corpo orrendamente diviso in due sezioni – nel corso della sua seconda parte e destinato ad approdare ad una avvincente lotta conclusiva non priva neppure di fuoco e fiamme.
Consentendo allo spettatore di sentirsi pienamente coinvolto dinanzi alla oltre ora e venti totale... al servizio di quello che, forse, possiamo includere nel manipolo di migliori esempi cinematografici rientranti nel sottofilone dell’horror portato al successo da Lo squalo (1975) di Steven Spielberg.