Omicidio al Cairo, perfetto equilibrio tra suspense e denuncia sociale
In Egitto, alcune settimane prima dello scoppio della rivoluzione del 2011, Noredin, ufficiale di polizia nel guasto sistema vigente al Cairo, si ritroverà a indagare sulla strana morte di una cantante (Lalena) avvenuta all’interno del lussuoso Nile Hilton Hotel. Rendendosi conto del legame esistente tra quest’assassinio e l’élite dei potenti che ruotano attorno al Presidente Mubarak, Noredin dovrà scegliere una volta per tutte da che parte schierarsi: onestà o dilagante corruzione?
Ambientato al Cairo, ma girato in Marocco (Casablanca) a causa dei divieti imposti alla produzione dalle autorità egiziane, Omicidio al Cairo è un thriller politico cupo e affascinante, un film immersivo che accompagnerà lo spettatore nelle fumose atmosfere di un Paese perlopiù amministrato da ladri, truffatori, corruttori e corrotti. Il regista svedese Tarik Saleh, che ben conosce la realtà dell'Egitto, attraverso il genere noir descrive a perfezione quei motivi che spinsero migliaia di giovani a scendere in Piazza Tahrir per urlare tutto il loro sdegno verso una classe dirigente marcia e prepotente. A guidare il pubblico all’interno della decadente struttura governativa egiziana sarà il protagonista - un tutore dell’ordine invischiato in quel circolo vizioso fatto di mazzette e malaffare -, che scegliendo di spezzare quelle putride regole si trasformerà in un inatteso antieroe. L’occhio della cinepresa seguirà infatti Noredin nel suo percorso di cambiamento, evoluzione che andrà di pari passo tanto con l’estremo tentativo di far emergere la verità su cosa, e chi, si celi realmente dietro l’omicidio di Lalena, quanto con la crescente rivolta popolare che sfocerà poi nella nota ‘Primavera araba’.
Tarik Saleh, qui anche sceneggiatore, riesce a coniugare magistralmente la suspense del giallo con la lucida rappresentazione di una nazione sull’orlo del baratro, e i continui andirivieni di Noredin in macchina serviranno a mostrare una città in ebollizione, dove il senso della parola giustizia è ormai da tempo scomparso. Prendendo spunto da una storia vera - l'uccisione nel 2008 della famosa cantante libanese Suzanne Tamim del cui delitto vennero accusati un ricco uomo d'affari e un membro del parlamento dell’allora governo Mubarak -, il filmmaker di origini egiziane realizza un lavoro che scava in profondità nei mali che, come radici infestanti, minano le basi di molte presunte Democrazie.
L’ottima riuscita finale di Omicidio al Cairo - opera coprodotta da Svezia, Danimarca e Germania che ha ottenuto sia il premio World Cinema Grand Jury Prize del Sundance Film Festival, che la Spiga d’Oro alla 62ª Semana Internacional de Cine de Valladolid - è da ricercarsi non soltanto nella solida struttura narrativa o nell’abilità registica di Saleh, ma anche nella felice combinazione di diversi fattori, quali: la bravura di Fares Fares, che nel ruolo del personaggio principale offre al pubblico una splendida interpretazione; la fotografia di Pierre Aim, che avvolge le zone povere del Cairo in una polverosa sfumatura giallo-ocra, in netto contrasto con i toni brillanti e nitidi degli ambienti chic delle alte sfere; la trascinante colonna sonora di Krister Linder.
Oggi sappiamo tutti che nonostante il cambio di governo la situazione in Egitto non è purtroppo mutata, e il film di Tarik Saleh sarà per ognuno di noi un’imperdibile occasione per meglio comprendere il clima mefitico in cui lo sfortunato ricercatore Giulio Regeni si è, suo malgrado, venuto a trovare.