Ohong Village – Partenze e ritorni in un film sociale sul tema del lavoro e sul complesso concetto di realizzazione personale

Quando Sheng-Ji torna nel villaggio a sud di Taiwan dove è nato e cresciuto, il giovane sembra declamare un successo che non mostra alcun riscontro nel reale. Reduce dalla metropoli di Taipei e vestito di tutto punto in completo da businessman, il giovane sostiene infatti di guadagnare un milione di dollari al mese. Ma, di fatto, non ha un soldo in tasca. I sogni e i desideri di affermazione (non solo suoi ma dell’intera famiglia, a partire dal severo padre) innescheranno subito un confronto/scontro tra immagine e realtà, idea e realizzazione, sogno di grandezza e amarezza di un ritorno a casa che soffre tutto il peso ingombrante del “fallimento”.

Gli imprevisti della vita lo ricondurranno dunque come in un crudele gioco dell’oca alla vita di partenza, lo costringeranno a rimboccarsi le maniche aiutando il padre nella storica attività famigliare di allevamento di ostriche (che frutta sempre meno), e sostenendo l’idea imprenditoriale piuttosto bizzarra dell’amico di infanzia di allestire una zattera per portare “a zonzo” i turisti. Il ritorno alla vita, alle proprie radici, ma anche alla frustrazione di non essere riusciti in quell’impresa del successo e dei soldi tanto declamata, e dunque la mancata realizzazione personale, determineranno però anche una crescita importante, una svolta di vita essenziale, restaurando in qualche modo le priorità di un successo che non è solo l’immagine effimera di beni tangibili e soldi da collezionare, ma soprattutto una fotografia di vita degli affetti da “preservare”, e del legame inscindibile con il mondo da cui veniamo.

Vincitore del premio Cipputi al Torino Film Festival 2019 sul film che meglio rappresenta il mondo del lavoro, Ohong Village è opera intensa che ragiona sulle dinamiche della vita, sui contrasti netti tra sogni e realtà, tra aspettative e frustrazioni, ma che solleva anche una riflessione sulla pressione che famiglia, società e il mondo tutto sempre esercitano sul singolo individuo, dirottando spesso le volontà personali verso le imposte volontà circostanziali.

Alla sua opera prima il regista taiwanese Lungyin Lim conduce con mano solida e un’atmosfera elegiaca (che mescola la ricchezza del mare e dei suoi frutti alla povertà della terra che lo circonda) questa storia di formazione che vede nel confronto e poi nello “scambio” di ruoli tra amici il suo paradosso narrativo, la sua affermazione concettuale. Nei duri contrasti con il padre, nella frustrazione derivante dalla mancata affermazione e poi in quella della intervenuta “perdita”, Ohong village (girato in uno splendido 16 mm) evidenzia la depressione della mancanza ma si accende poi nella luce della consapevolezza, della presa di coscienza, in qualche modo accettazione del proprio ineluttabile destino.

Un’opera cruda che parla di scelte di vita, di precarietà del lavoro, di una generazione affannata tra speranze e insuccessi, ma anche di percorsi esistenziali, quelli che tanto attraverso il luccichio di una vita manageriale quanto a bordo di un’esile imbarcazione a raccoglier ostriche possono condurci – per vie dirette o traverse - verso la tangibilità della nostra vita reale. Non la vita che avremmo voluto o forse potremmo avere in altre circostanze, ma proprio la vita in cui ogni giorno abitiamo e che in qualche modo dobbiamo “modificare” o imparare a fare nostra. Circondati dal mare o all’ultimo piano di un grattacielo.