Oh mio Dio!: Il Gesù… Amato
Sarà vero che gli intelligenti di oggi cercano di spiegare tutto tramite la ragione perché sono troppo egocentrici per avvicinarsi a Gesù come fanno, invece, gli umili e i puri di cuore?
Nei duemila anni succeduti alla crocifissione del figlio di Dio, l’uomo ha dimostrato di saper fare tutto, tranne amarsi e rispettarsi.
È probabilmente per questo che, con le fattezze del televisivo Carlo Caprioli, torna sulla Terra d’inizio XXI secolo intento a riportare la propria parola al centro dell’attenzione e proclamare l’imminente arrivo nel Regno dei Cieli, costantemente seguìto, però, da due cameraman incaricati di realizzare quella che sarà la testimonianza video del suo passaggio.
Infatti, sebbene l’idea di base di Oh mio Dio! sia stata partorita dal regista Giorgio Amato nel 1998 per essere poi influenzata, quasi quindici anni più tardi, dal romanzo A volte ritorno di John Niven, nel corso della visione è impossibile non pensare a similitudini con il tedesco Lui è tornato che, incentrato sul risveglio di Adolf Hitler nella Berlino odierna, ha generato anche il rifacimento mussoliniano italiano Sono tornato.
Perché, tra l’incontro con un controllore a bordo di un treno e un’escursione presso il mercato capitolino di Campo de’ Fiori, come in quel caso è un mix di candid camera e finzione a caratterizzare il progressivo reclutamento di apostoli, comprendenti un frate interpretato dallo Stefano Fregni di Amore liquido e una Maddalena che, rimasta incinta di un politico, manifesta i connotati di Giulia Gualano.
Con la tematica dell’aborto tirata in ballo, quasi una strizzata d’occhio alla precedente fatica amatiana Il ministro quest’ultima circostanza; man mano che, in mezzo a camminate sulle acque del Tevere e una immancabile ultima cena, è soprattutto l’aspetto mockumentary a prevalere durante la oltre ora e mezza, non priva neppure di un incontro ravvicinato con una indemoniata.
Quindi, se da un lato prevalgono in particolar modo riprese con camera a spalla, dall’altro sono presenti diverse situazioni ricostruite, come quelle degli scontri con i neofascisti e con una violenta combriccola di spacciatori di droga.
Situazioni che risentono di sicuro della pochezza di budget e di una recitazione non sempre convincente, ma che non penalizzano più di tanto un’operazione che, misurata per quanto riguarda l’ironia, riesce a funzionare probabilmente più in sceneggiatura – con tanto di inaspettato epilogo – che dal punto di vista della regia nel ricordare che non serve una croce per uccidere, in quanto basta l’indifferenza... riconfermando il suo autore, in ogni caso, come uno dei più interessanti del panorama cinematografico tricolore del terzo millennio.