Non c'è più religione
Prima di immergerci in una piccola isola del Mediterraneo, una didascalia di apertura ci avverte in maniera esilarante che, all’interno della sala cinematografica in questione, ognuno di noi ha 0,65 figli e 2,83 cellulari. Isola del Mediterraneo dove, come ogni anno, per celebrare il Natale si realizzerebbe tranquillamente il presepe vivente, se non fosse per il fatto che, però, il Gesù Bambino titolare è cresciuto e, oltre a sfoggiare baffi e brufoli, nella culla non è più in grado di entrare. Situazione che, complici sia il fatto che a Porto Buio i bambini non nascano più da un pezzo, sia che la tradizione del presepe rappresenti l’unica “resistenza per non scomparire”, costringe il sindaco fresco di nomina Cecco alias Claudio Bisio a tentare di chiedere un sostituto in prestito ai tunisini che vivono nel posto, con la cui comunità, però, non corre affatto buon sangue. Comunità alla cui guida si trova l’amico italiano convertito all’Islam Marietto detto Bilal, il quale, con le fattezze di Alessandro Gassman, finisce per aiutarlo nell’impresa insieme a Suor Marta, ovvero Angela Finocchiaro, che non ne vuole sapere di “profanare” la culla di Gesù.
Tre personaggi ai quali vanno aggiunti anche il don Mario di Massimo De Lorenzo e l’Aldo di Giovanni Cacioppo nel corso di Non c’è più religione, tramite cui il cineasta napoletano classe 1966 Luca Miniero torna ad occuparsi di contrasti e pregiudizi che, però, non poggiano stavolta sul confronto tra settentrione e meridione portato sullo schermo sia nell’ottimo Benvenuti al sud che nel meno riuscito sequel Benvenuti al nord e nel pessimo Un boss in salotto. Titolo, quest’ultimo, che, come pure l’inguardabile La scuola più bella del mondo, non risulta affatto superiore rispetto alla oltre ora e mezza in questione sguazzante tra chiesa divisa in due, ramadan cristiano e Madonna buddista; trovando anche il tempo di tirare in ballo una segreteria telefonica abbastanza particolare ed il bellocchiano Roberto Herlitzka nei panni di un vescovo.
Oltre ora e mezza di visione che, in ogni caso, mentre il già citato Bilal storpia A Silvia di Giacomo Leopardi, spacciandola per sua come pure 4 Marzo 1943 di Lucio Dalla, appare piuttosto fiacca dal punto di vista narrativo e, di conseguenza, decisamente lontana dalla sufficienza.
Se poi, per ridere, vi bastano un grottesco monologo tra Suor Marta e l’immagine di Cristo sulla croce, un lama messo al posto del bue e battute non poco tristi del calibro di “Un uomo senza barba è come il culo di un babbuino”, potreste accontentarvi di apprendere che un asino non diventerà mai un cavallo da corsa e di sciropparvi l’ennesima, banalissima moralina buonista relativa all’integrazione sfoderata ricorrendo a delicati argomenti meritevoli di ben altra (e molto più seria) considerazione.