Moonlight

Siamo nelle periferie di Miami e Chiron, detto Little, è un bambino di colore silenzioso e remissivo con una situazione famigliare ai limiti (madre tossicomane e nessun padre in vista), e l’ombra devastante del bullismo scolastico alle calcagna. In un momento buio come una notte senza luna, una coppia di vicini si presterà al ruolo di guida, soccorrendo il bambino in quegli anni fondamentali in cui il silenzio e la solitudine sembrano l’unica via di elaborazione, mentre il mondo della droga un alleato troppo facile da avvicinare.

Successivamente, sarà la presenza di un coetaneo adolescente (Kevin) a fornire l’apparente solidarietà necessaria per crescere e andare avanti in mezzo a una realtà tanto cruda e dura, a compagni aggressivi e violenti, in un mondo dove un ragazzino di colore fragile dalla sensibilità spiccata, e ancora affannosamente alla ricerca di una propria identità sembra non avere alcuna chance di sopravvivenza. Perché là fuori è un mondo di squali e di orrore, dove le differenze (di razza, colore, status sociale, soldi e potere, e orientamento sessuale) dettano legge, indicando senza mezzi termini e da subito chi dovrà dominare, e chi soccombere.

Determinato (da un certo punto in poi) a rovesciare quello stato di cose, il piccolo Little (primo capitolo), attraverserà la fase di presa di coscienza (Chiron – secondo capitolo), per poi approdare a Black (terzo capitolo), un suo alter ego solo apparentemente più forte e coraggioso, in grado di gestire con una fisicità non più ‘dimessa’ la propria interiore vulnerabilità. Ma la crescita sottende ferite che neanche il tempo e una montagna di soldi possono in alcun modo rimarginare.

Dopo otto anni dall’interessante boy meets girl di Medicine for Melancholy, il regista statunitense Barry Jenkins trova il coraggio per parlare di accettazione, rivelazione, ricerca delle propria identità sessuale (e non), in un mondo in cui black, gay, disadvantaged, sono ancora parole troppo volubili e delicate, e che operano lungo il senso di ‘esclusione’, allontanamento, indicando nella diversità sempre un concetto di limitazione piuttosto che di arricchimento.

Moonlight. “Perché i neri quando è sera e c’è la luna sembrano blu. O almeno così diceva un’anziana signora”. Attorno all’idea poetica di una diversità che diventa colore, e all’immagine candida di un corpo di bambino specchiato nel mare e riflesso in un’atmosfera bluastra di rarefazione giovanile, Jenkins affoga e fa riemergere il ritratto cupo di un piccolo uomo alle prese con un mondo grande, e dannatamente ostile. Attraverso i tre capitoli, le tre fisicità diverse, e il processo di ‘adattamento’ cui Little andrà incontro per diventare Black (sacrificando sé stesso e la sua ‘esteriorità’ all’altare della sopravvivenza), Moonlight ricava e descrive tutta la forza di resilienza umana, quella capacità di resistere ai ceffoni della vita barcollando, cadendo, e infine rialzandosi più forti di prima.

Punto di forza dell’opera oltre a una regia che fonde con abilità disincanto e poesia, è senz’altro la presenza sommessa e mai eccessiva dei tre protagonisti che prestano il volto e il corpo a Chiron, e alla sua affascinante parabola di vita. Bravissimo il piccolo Alex R. Hibbert nei panni di Little, ma altrettanto bravi anche Ashton Sanders e Trevante Rhodes nei rispettivi panni di Chiron adolescente e adulto (Black). Dal piccolo bambino impaurito all’uomo grande, grosso e muscoloso, a costituire il vero carattere del film è infatti il filo conduttore di uno sguardo di uomo in evoluzione, ma pur sempre impaurito e smarrito di fronte a una vita di continui ostacoli. E dunque Moonlight, nonostante un montaggio forse non sempre perfetto, ma una regia e una colonna sonora di indubbio carattere, accende la luce su un mondo cupo, navigando a vista tra le onde della vita, ed esercitando un’ampia e dolorosa riflessione sulla difficoltà (a volte impossibilità) di essere sé stessi, specie quando l’intero mondo circostante t’impone di essere come lui vorrebbe.