Montedoro

Montedoro non è un film, come la quasi totale assenza di sceneggiatura fa ben comprendere. 
Siamo di fronte ad un viaggio onirico e spirituale, ad un intenso, sanguigno e sanguinante percorso ancestrale tra le bellezze maestose della Basilicata che così tanto colpirono Mel Gibson quando decise di girarvi The Passion. Ciò che lo penalizza è l’ossatura drammaturgica, troppo debole per raccordare le struggenti immagini ed assolutamente, inversamente proporzionale ad esse. 

Siamo di fronte a delle suggestioni molto significative, ad una buona manciata di fotogrammi di livello superiore (i primi piani dei contadini le cui rughe sembrano possedere vita propria sono degni del miglior Pasolini) ma il passo è di una lentezza, a tratti, insopportabile ed il montaggio è dilettantesco a dir poco. L’Effetto Dardenne, inoltre, funziona soltanto…per i fratellli Dardenne.

La storia è autobiografica e la protagonista della vicenda reale interpreta se stessa nel film. Scelta assai discutibile, specialmente se (come accade in questo caso) non si sa gestire la propria presenza di fronte alla camera.

Un’altra storia, invece, per le donne in nero, la cui natura scopriremo nel corso della vicenda. Semplicemente eccezionali nella gestione drammatica del ruolo più difficile in assoluto (sono le loro le uniche frasi significative perché questo è, innegabilmente un film di antiche pietre e sagge donne) che rischiava facilmente di cadere nel ridicolo, elemento che si rischia con colui che guida la processione, la cui disabilità potrebbe essere facilmente fraintesa dallo spettatore non smaliziato, privandolo in tal modo del fortissimo valore simbolico attribuitogli dal regista e dall’autore. 

La bellezza dei paesaggi lucani è innegabilmente struggente e la fotografia è inversamente proporzionale allo script, il cui autore è il regista Antonello Faretta. Il vero protagonista del film è infatti Craco, in provincia di Matera, uno dei più famosi paesi fantasma italiani, di tale suggestiva bellezza da giustificare la scelta di questa produzione per inaugurare il V Meeting Internazionale del Cinema Indipendente di Matera. Le luci valgono, infatti, da sole il prezzo del biglietto. Montedoro va dunque apprezzato per ciò che è: essenzialmente un (altamente simbolico, peccato non coglierne le sfumature più profonde. Quella dello stallone nero che si rotola a terra, ad esempio, è una sequenza veramente favolosa) esercizio di stile che poggia su un esile canovaccio.

Il reale merito di questo lavoro è, invece, quello di obbligare lo spettatore ad entrare in contatto con la propria parte più intima, con i reconditi recessi dell’infanzia, con le proprie radici e, più di tutto, con la propria mortalità.

Una cosa è certa: “Il paese abbandonato” potrebbe tranquillamente essere il centro storico de L’Aquila, praticamente abbandonato a se stesso dopo il terremoto o qualsiasi altro luogo d’Italia in cui sono i Sassi a fare da padroni. Questo valore universale del film ha un profondo ed innegabile merito e ne rende la visione altamente consigliata.