Mechanic: Resurrection

Pochissimi minuti dopo l’avvio, ambientato a Rio de Janeiro, arrivano immediatamente le botte da orbi, con l’agile e roccioso Jason Statham che, nei panni di Arthur Bishop, si trova anche a dover affrontare una adrenalinica situazione che non manca neppure di deltaplano in volo.
Ma, prima, di proseguire, occorre una domanda spontanea: chi è Arthur Bishop?

Assassino scelto ed estremamente metodico che, denominato anche “meccanico”, è provvisto di un codice molto severo e di un talento unico nell’eliminare in modo impeccabile ogni sua vittima, venne incarnato sullo schermo dal mitico Charles Bronson, nel lontano 1972, all’interno di Professione assassino di Michael Winner; anticipando di trentanove anni l’omonimo e tutt’altro che disprezzabile rifacimento curato da Simon West ponendo nel ruolo di protagonista, appunto, il già citato interprete delle saghe Crank e Transporter. E, a differenza del precedente capitolo, che, come l’originale, evitava l’effetto “tamarrata” e privilegiava la costruzione psicologica dei personaggi principali basandosi sulle tematiche universali della vendetta e della redenzione per concedere spazio a movimento e violenza soltanto quando veramente necessario, è proprio la tendenza a fare ricorso ad assurde imprese volte al facile intrattenimento come avvenuto nei due diversi franchise action a spiccare, invece, in Mechanic: Resurrection.  

Infatti, una volta passati dalla sopra menzionata città brasiliana ad un villaggio thailandese, dove il richiestissimo sicario prima viene accolto dalla vecchia amica Mei alias Michelle Yeoh, poi s’innamora della bella insegnante Gina cui concede anima e corpo Jessica Alba, il pretesto per farlo tornare all’opera viene rappresentato dal rapimento di quest’ultima da parte degli uomini di un misterioso uomo d’affari intento a costringerlo ad eliminare tre individui – ma facendo sì che le loro morti sembrino incidenti – residenti in altrettante diverse località del mondo. Tre individui tra cui il ricco trafficante d’armi Max Adams dalle fattezze del premio Oscar Tommy Lee Jones e protetto in una roccaforte bulgara; del quale, però, veniamo a conoscenza soltanto in seguito alla “visita” ad un detenuto in un penitenziario sito al largo delle acque della Malesia ed all’escursione australiana presso un milionario che pare includa nelle proprie fonti di ricchezza la prostituzione minorile. Escursione dispensatrice della assurda sequenza atta a tirare in ballo una piscina in vetro posta in cima ad un grattacielo e che, insieme allo spargimento di cadaveri a bordo di uno yacht che caratterizza l’ultima fase della oltre ora e mezza di visione, rappresenta, senza alcun dubbio, uno dei suoi momenti maggiormente coinvolgenti. Man mano che, sorvolando sulla non eccelsa resa digitale di alcune esplosioni, il tedesco Dennis Gansel – autore, tra l’altro, della commedia Ragazze pom pom al top e del drammatico L’onda – gestisce questo suo debutto registico in terra americana sfoggiando il giusto senso del ritmo ed evitando di annoiare lo spettatore... che vi trova occasioni di divertimento, pur avvertendo i connotati di b-movie decisamente distante dal capostipite.