Man in the dark

Addirittura in anticipo rispetto al titolo di apertura, abbiamo una ragazza che lascia una scia di sangue sull’asfalto man mano che viene trascinata da un individuo di cui scopriamo l’identità soltanto una volta addentratici nella quasi ora e mezza di visione.

Quasi ora e mezza di visione i cui i protagonisti sono tre ladruncoli con le fattezze di Daniel”It follows”Zovatto, del Dylan Minnette di Piccoli brividi e della Jane Levy vista, tra l’altro, nel remake datato 2013 de La casa di Sam Raimi, qui produttore insieme al fido Robert Tapert.

Del resto, è lo stesso Fede Alvarez che si occupò di quel discutibile rifacimento a trovarsi anche in questo caso dietro la macchina da presa per calare il citato trio all’interno della tetra abitazione di un ex soldato non vedente incarnato dallo Stephen Lang di Avatar, a quanto pare in possesso di un vero e proprio tesoro e pronto a reagire in maniera piuttosto irruenta contro coloro che invadono il suo territorio.

Territorio in cui, oltretutto, imperversa un feroce rottweiler destinato sì a far parte degli elementi atti a regalare inquietudine allo spettatore, ma anche ad accentuare i diversi debiti che l’operazione presenta nei confronti del sottovalutato La casa nera, diretto nel 1991 dal compianto Wes Craven e costruito su un plot poco dissimile.  

Debiti che, in ogni caso, non conferiscono affatto mancanza di originalità e sapore di già visto all’insieme, claustrofobico thriller arricchito di un ulteriore personaggio nel corso del suo svolgimento, ma fornito di componenti fortemente horror.

Perché, se da un lato, come c’era da aspettarsi, non mancano certo violenza e cadaveri (con sangue, ma anche sperma), dall’altro la curata fotografia di Pedro Luque provvede a dispensare la necessaria, cupa atmosfera.

Rappresentando soltanto uno dei pregi relativi alla tecnicamente impeccabile confezione, al servizio di un non eccelso ma coinvolgente gioco del gatto e il topo da grande schermo... capace di fare della onnipresente tensione la sua arma vincente e che, mentre viene osservato che “Non c’è niente che un uomo non possa fare una volta che ha accettato il fatto che Dio non esiste”, si rivela ancor più affascinante nel lasciarsi intendere quale allegoria anticapitalista, con particolare riferimento alle conseguenze morali e sociali generate dall’eterno, inarrestabile spettro della guerra.