Madre! – l’apologia dell’artista nella sua esasperazione più vana
Una coppia (Jennifer Lawrence e Javier Bardem) si trasferisce nella grande casa di lui. Lei si impegna indefessamente per rimettere la casa a nuovo. Lui, intanto, vorrebbe scrivere poesie ma è privo di ispirazione. La loro vita procede placida fino a quando l'inaspettata visita di uno sconosciuto – un medico di passaggio - non darà il via a una serie di imprevedibili eventi legati a quel luogo casa, allo status di artista, e alla possibilità, della coppia, di mettere al mondo un figlio.
Libera nos a malo. Si chiude un po’ con questa in(vocazione) la visione dell’ultima opera di Darren Aronofsky (The Wrestler, Il cigno nero), presentata (col senno di poi, sotto una fosca nube di incredulità) in concorso al festival di Venezia 2017. Sì perché la visione del film, nei 120 lunghissimi minuti che costituiscono la pellicola, è davvero solo una lunga pena inflitta all’ignaro spettatore. Aronofsky si lancia con Mother nella prospettiva horror di una vita di coppia sgretolata da una serie di eventi legati a doppio filo all’identità di Lui, ovvero un Poeta narcisista nutrito dal proprio ego e dunque ossessionato dalla proiezione mistificatrice dei propri adoratori, secondo cui tutto ciò che accade, accade in virtù di ciò che “Il Poeta ha detto” - (o fatto, o deciso, e via dicendo). In questo contesto, la sua mega villa sita nel nulla, diventa focolaio in cui aizzare la fiamma della sua ‘ars’ a discapito di tutto e tutti, inclusa la sua compagna e dunque possibile Madre (mother) di suo figlio. La donna, madre in fieri, diventa così mero oggetto di ispirazione e/o sfruttamento da parte dell’artista che ne assorbe l’amore, lo slancio materno, il senso di protezione per dare vita all’ispirazione e alle parole delle proprie poesie. Dal culto dell’artista, nella sua mente o fuori, si genera dunque una sorta di “setta satanica” che osanna il lavoro di Lui distruggendo ogni altra cosa trovi lungo la strada, animata o inanimata che sia, al fine di mantenere in vita il solo culto. Infine, a suggellare il tutto vi è il concetto della rinascita dell’ispirazione (o creazione) che accade ogni volta da principio, e che nella sua spiegazione allegorica prevede, ogni volta, distruzione del processo precedente in virtù della ricostruzione del nuovo.
Una serie di concetti, idee, ed elementi sparsi viaggiano all’interno del magma narrativo del film di Aronofsky, senza mai prendere però una vaga concretezza, o una vera identità, e restando inespressi all’interno di una confezione confusa e confusionaria. Il concetto di base resta una suggestione vaga sull’inadeguatezza del complesso famiglia, o società più in generale, entrambi nutriti da una falsa idea di creazione, mentre a impadronirsi della scena è indiscutibilmente il flusso ininterrotto di crescenti ‘esternazioni’ visive. La casa, luogo intimo e privato per definizione, si trasforma quindi in un tunnel senza uscita infestato da estranei, dall’ossessione artistica, dal male. E mentre i risvolti horror prendono il sopravvento lasciando ben poco spazio ad altro, nel suo crescendo la pellicola diventa un melting pot di insensatezze e inutile fragore, alimentato da un’isteria visiva che minuto dopo minuto si fa davvero insostenibile. Un lavoro che delude su tutto il fronte e che di fatto brucia anche il potenziale di un buon cast per celebrare il concetto di apologia dell’artista nella sua esasperazione più vana.