Made in Italy, Ligabue trasforma in film il suo concept album… e i nodi vengono al pettine
A distanza di 20 anni da Radiofreccia, e a 16 da Da zero a dieci, Luciano Ligabue riprende in mano la macchina da presa per regalare al pubblico un terzo lungometraggio, Made in Italy. Ma se nel 1998 il Liga riuscì a mettere tutti d’accordo sul suo talento come regista, aggiudicandosi in quell’occasione diversi premi - David di Donatello, Nastro d’Argento, Globo e Ciack d’Oro -, con il suo nuovo film le cose potrebbero andare diversamente. Sì, perché questa volta il ‘rocker’ di Correggio realizza un’opera sfilacciata e poco incisiva, un prodotto che manderà di certo i suoi fans in visibilio, ma lascerà al comune spettatore l’amaro in bocca.
Riko (Stefano Accorsi), operaio in una piccola azienda che produce insaccati, è un uomo insoddisfatto che ha superato la quarantina. Il suo matrimonio con Sara (Kasia Smutniak) è ai ferri corti, tutto intorno a lui sembra andare a rotoli e la sua unica valvola di salvezza sono gli amici. Eppure, malgrado un'esistenza ben diversa da quella desiderata, Riko troverà la forza di risollevarsi...
Per comprendere appieno il motivo della fastidiosa carenza di fluidità narrativa che pervade la quasi totalità della ‘pellicola’, bisogna però fare un passo indietro nel tempo, e più precisamente tornare al 2016, quando uscì il primo concept album dell’artista emiliano intitolato per l’appunto ‘Made in Italy’. Anacronistico quanto coraggioso, quel lavoro di Ligabue descriveva traccia dopo traccia la vita di Riko: i sogni infranti, l’amore-odio per le bellezze e le storture dell’Italia, il valore dell’amicizia, la politica, i tradimenti, il rapporto di coppia prosciugato, la voglia di cambiamento, la speranza di una rinascita. Ed è proprio dall’insieme di questi temi che è nata la sceneggiatura del terzo film del cantautore. Ora, cercare di tessere un’unica storia cucendo assieme per il grande schermo singoli brani musicali è un esercizio estremamente complicato, e quest'ultima opera dell’autore di tante hit (tra cui Certe notti, Ho perso le parole e Le donne lo sanno) sembrerebbe confermarlo.
Ciò che manca a Made in Italy è infatti la solidità strutturale dello script, una carenza che inevitabilmente si ripercuote sull’intera messa in scena, dove purtroppo abbondano sequenze tagliate con l’accetta e slegate dal resto del contesto. E' un vero peccato vedere buttati lì alcuni momenti filmici che se ben amalgamati avrebbero potuto essere estremamente incisivi, la cui frammentazione impedisce invece agli spettatori di lasciarsi andare alle emozioni. Sfortunatamente, ad arginare la mancanza di empatia tra protagonisti e pubblico in sala non bastano Stefano Accorsi e Kasia Smutniak, che pur funzionando a meraviglia come coppia cinematografica non riescono però a supplire alle varie imperfezioni di regia e scrittura. Ma per i supporters di Ligabue il discorso cambia, e anche di tanto. Già, una medaglia ha sempre due facce, e quella dei suoi fans seguirà la proiezione facendosi trasportare da un solo fil rouge emotivo che non sarà dettato dalle immagini o dai dialoghi, no, ma dalla colonna sonora che riempirà le loro anime di calore.
Si deve ad ogni modo riconoscere che le intenzioni di Ligabue erano senz'altro valide, perché parlare del nostro Paese tramite lo sguardo nostalgico, e tutto sommato fiducioso, di un uomo qualunque avrebbe potuto rivelarsi un’idea, se non originale, di sicuro vincente. Appunto, avrebbe potuto...