Lui è tornato
E se Adolf Hitler tornasse a vivere ai giorni nostri?
È la provocatoria domanda postasi nel 2012 dal giornalista Timur Vernes e che gli ha consentito di concepire il suo bestseller (nonché primo romanzo) Lui è tornato, venduto in oltre due milioni di copie nella sola Germania e i cui diritti di traduzione sono stati autorizzati in quarantuno territori comprendenti Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Russia, Giappone e Cina. Bestseller che David Wnendt ha deciso di trasformare nell’omonimo lungometraggio atto a porre un ottimo Oliver Masucci proprio nei panni del temibile cancelliere del Reich, improvvisamente risvegliatosi in una attuale zona residenziale di Berlino dove, settant’anni prima, si trovava il suo bunker.
Temibile cancelliere che, oltre a dedicarsi ad escursioni alle giostre e a non riconoscersi nella società multiculturale tedesca odierna, non manca di raccogliere per la strada le dichiarazioni della gente comune d’inizio terzo millennio, buona parte della quale si rivela vera e propria nostalgica degli ideali di destra, nonché stanca della presenza degli extracomunitari in terra teutonica.
Ma l’aspetto curioso risiede nel fatto che, mentre il Führer ammette che si coalizzerebbe con i Verdi e osserva che la rabbia silenziosa già era presente nel 1930, sebbene, però, non esistesse la dicitura “apatia politica”, le testimonianze raccolte non sono affatto ricostruzioni, bensì frutto di reali inchieste girate – con tanto di coinvolgimento di personaggi famosi – sulla falsariga delle candid camera, ricordando quasi quanto operato nel 2006 da Sacha Baron Cohen in Borat: Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan di Larry Charles.
Alimentando ulteriormente il fondamentale aspetto di denuncia sociale che, in mezzo a frecciatine ad Angela Merkel e ad altre rivolte a coloro che hanno interpretato su celluloide l’artefice dell’Olocausto (da Charlie Chaplin a Bruno Ganz, passando per Louis de Funes), emerge soprattutto dal momento in cui il giovane Fabian Sawatzki alias Fabian Busch contribuisce a trasformarlo in una autentica star del piccolo schermo, dove comandano produttori e ambiziosi uomini dei media pronti a tutto pur di ottenere audience, successo e, soprattutto, denaro.
Perché, se da un lato non possiamo fare a meno di sentirci divertiti nel vederlo alle prese con la tecnologia moderna – dai selfie scattati tramite smartphone all’uso di internet – e pronto a pensare che dal nome di Wikipedia traspare il genio innovativo degli ariani (!!!), dall’altro è una rappresentazione dell’uomo dai baffetti educato, affascinante e flessibile dietro la sua facciata di megalomane disturbato a consentire che si evidenzi l’attacco alla televisione quale potente mezzo che, in mano a loschi individui e politicanti pronti a camuffarsi da brillanti comici, finisce spesso sfruttato per diffondere non sempre condivisibili ideali.
Del resto, se la dichiarata intenzione dei produttori era quella di realizzare un film che mettesse in maniera ironica la società dinanzi ad uno specchio, non possiamo affermarne altro che la riuscita... tanto più che, tra un violento imprevisto con un cane e grottesche avventure in lavanderia, l’umorismo piuttosto nero tirato in ballo si rivela decisamente funzionale a quanto inscenato nel corso dell’originale elaborato, talmente ben scritto da spingere a sorvolare su un piccolo eccesso di lunghezza (siamo oltre l’ora e cinquanta totale) e da permetterci di intuire come, su un pianeta Terra ormai governato per lo più da “impostori incanta-elettori” e in cui un minimo della personalità hitleriana sembra trovarsi all’interno di chiunque, la ragione e l’intelligenza non possano fare a meno di essere relegate – proprio per comodo degli stessi – nel tutt’altro che confortante angolo della pazzia.